#DPINZOOM: Incontro con gli artisti del progetto Zona Rossa al Teatro Bellini di Napoli

Giovedì 11 febbraio abbiamo ospitato, all’interno della nostra usuale riunione settimanale su Zoom, gli artisti del progetto Zona Rossa del Teatro Bellini di Napoli! Sono venuto a conoscenza del loro progetto qualche settimana fa e ho subito pensato che averli con noi avrebbe potuto permetterci di portare avanti il nostro percorso di formazione spettatoriale al meglio. E così è stato!
Risentire la diretta Facebook dell’incontro, disponibile sulla pagina di Dominio Pubblico (cliccate qui), produce ancora un certo effetto. Sono quasi due mesi che Licia Lanera, Alfredo Angelici, Federica Carruba Toscano, Pier Lorenzo Pisano e Matilde Vigna si sono volontariamente rinchiusi dentro il Teatro Bellini di Napoli per realizzare uno spettacolo, per la prima volta a lavoro tutti insieme e determinati a non uscire prima di una nuova riapertura dei teatri. Il tutto documentando quotidianamente il proprio lavoro attraverso i mezzi offerti dal digitale. Due registi e tre attori che lanciano così una provocazione alle attuali restrizioni in materia di spettacolo dal vivo, a ricordare che tra tutte le categorie lavorative messe in ginocchio dalla crisi pandemica, quella dei professionisti dello spettacolo teatrale sembra essere la più ignorata e sacrificabile.
Gli interrogativi emersi dall’incontro sono stati molti, e ancora più interessanti sono state le risposte e gli
stimoli offerti, ognuno rappresentativo del punto di vista e dell’esperienza umana e professionale di ognuno dei presenti. Tutto è iniziato con una semplicità eccezionale …


Walter Altamirano: Buonasera e piacere di conoscervi! Come state? Come vi sentite dopo un mese e 
mezzo rinchiusi in teatro?

Alfredo Angelici: C’è un grande odore di vernice, perché stiamo facendo le scenografie. Siamo come
ossigenati, dopati di una droga strana, che non credo faccia molto bene alla salute…

Federica Carruba Toscano: Sono quasi due mesi ormai. Sembra che in questi giorni i nostri umori si siano come risollevati. Banalmente, credo sia dovuto al fatto che siamo giunti alla fase di allestimento dello spettacolo, che porta sempre quella strana sorta di energia, di voglia di fare. Oggi abbiamo iniziato con le luci ed è stato molto bello vedere lo spettacolo prendere sempre più una forma concreta, materiale.

Walter: Consultando il sito del Bellini, nel quale viene quotidianamente documentato il lavoro che fate attraverso dirette, video di sintesi, quaderni di regia e così via, si capisce che lo spettacolo sta andando verso una direzione ben definita; i momenti di training sono stati messi da parte?

Alfredo: Il training ormai lo facciamo per conto nostro, lontano dalle telecamere, allo streaming invece
abbiamo deciso di far raccontare il lavoro sullo spettacolo.

Pier Lorenzo Pisano: Ci siamo quasi. Ormai si tratta di cominciare a fare le prime filate, e questo ci sta
facendo provare un grande entusiasmo!

Walter: Perché vi fa sentire più rilassati?

Licia Lanera: Sì esatto. Abbiamo vissuto dei momenti difficilissimi durante la creazione scenica. In alcuni di essi, in quanto registi, io e Pier Lorenzo abbiamo avuto il timore che non si arrivasse mai ad una forma vera e propria. Peraltro poche settimane fa l’attore Piergiuseppe Di Tanno ha deciso di lasciare il nostro gruppo, e questo è stato un grande scossone per tutti noi. È stato il periodo peggiore, anche perché ci aspettavamo tutti che arrivasse una qualche novità da parte dello Stato e invece nulla. Adesso invece, vedere lo spettacolo non solo finito, ma anche in una forma che personalmente mi convince molto, mi dà una grande gioia. Il compito che abbiamo in quanto artisti del resto è proprio questo: raggiungere una forma e parlare di sé e del mondo attraverso il linguaggio del teatro. Ecco perché quando ci riusciamo siamo molto sollevati. Poi il tempo passa e c’è chi l’accusa di più. Io adoro passeggiare e passare molto tempo in giro per la città, dunque vivere in queste condizioni mi sta richiedendo un notevole sforzo, che però accetto di buon grado.

Walter: I temi trattati nello spettacolo sono rimasti gli stessi o c’è stato qualche stravolgimento
particolare?

Matilde Vigna: Come spesso ci dice Licia, lo spettacolo, se è un buono spettacolo, si autogenera, nonostante i contributi portati da ognuno, che possono variare nel tempo. L’idea quindi di fare uno spettacolo che riflettesse sull’assurda condizione in cui ci trovavamo e continuiamo a trovarci ci ha conquistati fin da subito. Alla fine parliamo semplicemente di noi e delle nostre vite in questo momento particolare, ma così facendo parliamo un po’ di tutti. Questo spettacolo rispecchia la condizione che abbiamo tutti vissuto tra marzo e giugno dello scorso anno. Io in quel periodo sono rimasta bloccata in una stanza microscopica e ho dovuto rivoluzionare tutta la mia vita. Adesso, vivere in un teatro, con un senso di meraviglia e una certa sensazione di privilegio, a fianco ai miei compagni di (s)ventura, tutti i giorni, lo vedo come un esercizio sociologico. All’inizio mi ripetevo convinta: “Ma che vuoi che gliene freghi alla gente di me, che sto qua e che me lo sono pure scelto?!”; invece poi ti rendi conto di come le vicende del singolo abbiano sempre qualcosa d’universale.

Walter: Che percezione avete oggi dell’esterno, del mondo all’infuori del teatro?

Matilde: Tutte le persone che ogni giorno ci raggiungono per lavorare con noi ci dicono che fuori è tutto aperto e che ci mettono un’ora ad arrivare perché c’è traffico. Come se niente fosse… è tutto aperto tranne i teatri, sono tutti fuori tranne me. La sensazione che provo adesso è di forte perplessità. Prima ero molto spaventata dal virus, considerando anche che i miei familiari si sono ammalati. Mi preoccupavo per la gente fuori che stava male e mi dicevo che fosse giusto tenere chiusi i teatri. Ora però la situazione mi sembra notevolmente cambiata… Sono un po’ arrabbiata lo ammetto.

Alfredo: Sono molto incuriosito dal mondo là fuori. Zona Rossa ha dato e continua a dare un senso alla narrazione, che in quanto attore mi sento in dovere di fare, del settore di cui faccio parte. Mi sento di
partecipare, gramscianamente, in prima persona, al mondo a cui appartengo: quello del teatro, che è tutta la mia vita. Far parte di questo bel gioco, o come diciamo in questo nostro spettacolo, di una brutta storia a lieto fine, mi attribuisce una posizione, mi conferisce un ruolo ben preciso. Soprattutto quando arrivano importanti riconoscimenti da parte di altre categorie lavorative: è il caso degli operai della Whirlpool di Napoli o dei braccianti agricoli vittime del caporalato nelle piane di Gioia Tauro, con i quali abbiamo tentato di realizzare una narrazione collettiva della situazione di ognuno. Come se fossimo lavoratori normali, invece che lavoratori “artisti”. Parola terribile che ci porta in un limbo intellettuale insanabile, antipatico e veterotestamentario. Mi sento far parte di qualcosa in cui credo, e questo mi basta. Poi magari non cambieremo un cazzo, però quantomeno ci sarà stata onestà nell’aver voluto partecipare a un fenomeno in forma attiva e non soltanto riflessiva.
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Presenti alla riunione ci sono anche i due autori del format alla base del progetto Daniele Russo e Davide Sacco, collegati entrambi da casa propria.

Walter: Com’è nata l’idea di Zona Rossa?

Daniele Russo: È nata provocatoriamente scherzando su Whatsapp. “Pensa se facessimo una cosa del genere”. Infatti poi ci siamo detti “Ma l’abbiamo fatto davvero!”. Il progetto è nato perché i teatri sono chiusi da un anno intero. Ci sono state alcune aperture estive, ma noi ad esempio non siamo riusciti ad
aprire per più di quattro giorni qui al Bellini. E in che condizioni poi! Con solo 200 posti a disposizione e la gente che aveva moltissima paura. C’è stata come una falsa apertura. Continuiamo a restare chiusi, però non abbiamo chiuso la testa, che invece continua a macinare idee. Zona Rossa è stata principalmente una risposta polemica a questa voglia diffusa di svendere il teatro in streaming. Il teatro non si è fatto trovare pronto di fronte a questa pandemia e al contempo si è dato un po’ per scontato. Non ha avuto fiducia in sé stesso, nel suo modo di porsi e nel suo linguaggio, dando così un segnale di grande debolezza. Zona Rossa è un tentativo, o meglio ancora una proposta, di risveglio. I molti significati di questo progetto li abbiamo capiti strada facendo.
Abbiamo pensato che la cosa migliore da fare sarebbe stata interrogare e ribaltare il punto di vista, incontrarci e scontrarci con i mezzi a nostra disposizione. Voglio cercare di portare qualcosa in più al teatro, come un valore aggiunto. Se prima della pandemia avevamo 100 spettatori e quando tutto andrà bene ne ritroveremo 70 alla riapertura, voglio pensare di recuperarne se non 50 almeno 30 attraverso questo progetto. I gestori dei locali, di fronte alla minaccia del coprifuoco, non si sono mica persi d’animo. Loro sanno che la gente vuole fare l’aperitivo, e invece di prepararlo alle 19:00 si sono organizzati per anticiparlo. Sanno che il loro pubblico c’è, esiste, e così hanno agito di conseguenza. Noi teatranti, invece, non abbiamo questa sicurezza perché secondo me sappiamo di aver lavorato male negli ultimi anni. Sappiamo di aver perso un contatto umano con il nostro pubblico. Sappiamo tante cose che non ci vogliamo dire.

Davide Sacco: Ci siamo chiesti: mentre tutto il mondo sta cambiando in maniera così vorticosa e violenta, noi cosa stiamo facendo? Noi che facciamo teatro, cultura nei migliori casi, dove siamo e dove vogliamo essere? Vogliamo imporre o subire un pensiero? Domande che sembrano appese a un filo di seta. Ci siamo emozionati come poche volte nella vita quando un bracciante agricolo ha alzato i propri scarponi di plastica dicendoci “Questa è poi la verità”. Ecco: la nostra verità teatrale dov’è? Quand’è che potremo alzare i nostri scarponi fatti di fatica e di verità? Questo il motivo per cui con Daniele abbiamo deciso di mettere su qualcosa che avesse un volto preciso. Volevamo far guardare negli occhi degli artisti e capire quanta bellezza, quanta fragilità, quanta forza quotidiana ci fosse dietro un semplice spettacolo.

Daniele: Aggiungo un’ultima cosa. Secondo me più che da dove siamo partiti è importante capire dove
siamo arrivati o dove arriveremo. L’incontro con altre classi di lavoratori, anche loro attualmente in protesta, mi ha ricongiunto con un mondo vero, che il teatro non conosce più. Il teatro ha smesso di essere teatro diversi anni fa, quando ha cominciato a parlare soltanto a pochi.
In questo momento non mi rivedo in scena, non mi interessa tornare a fare uno spettacolo per sentirmi dire di essere bravo o per leggere una critica positiva. Mi manca la tournèe, quello sì, ma ho proprio voglia di fare qualcosa di diverso, per cercare di ripensare il teatro e la necessità che ne abbiamo, di riconnetterlo a qualcosa di vero, autentico.  Quindi, per non rispondere definitivamente alla domanda, non lo so da dove siamo partiti. Più o meno me lo ricordo ma so che stiamo andando da un’altra parte, e non sappiamo quando potremo dirci giunti a destinazione.

Walter: Tornare al punto di partenza non è più neanche un’opzione? Tornare alle programmazioni e al pubblico di prima, almeno per voi, non è più plausibile?

Daniele: Mi auguro che non avvenga. Non sono un intellettuale, né tantomeno un artista, non mi ci sento; sono un lavoratore dello spettacolo, questo sì. Vorrei che il teatro facesse parte del mondo vero. Non voglio ritrovarmi a inseguire numeri, a inseguire successi mistificati o meno. Sono molto deluso dal teatro italiano in questo momento, per la mancanza di coraggio e prospettiva dimostrata. Noi tutti abbiamo perso un anno. Cosa ha fatto finora di concreto il teatro, per essere essenziale alla collettività?

Alfredo: Per rispondere all’interrogativo posto da Daniele, credo che i frutti delle azioni di militanza
verificatesi in questo periodo, come la nostra appunto, non li potremo mai vedere in un anno o in pochi
mesi, ma più in prospettiva. Cerchiamo tuttavia fin da ora di chiederci ognuno cosa abbiamo fatto di utile e concreto. Ci vorrebbe un po’ più di coraggio, di franchezza… L’altro giorno mi ha chiamato una mamma qualsiasi, che in realtà è una mia cara amica, raccontandomi di percepire le persone intorno come lobotomizzate, intorpidite da questa pandemia, dopate dalla tecnologia, che ci è venuta in cosiddetto aiuto. Così anche suo figlio e gli altri ragazzi suoi coetanei: non più giovani attivi, presenti, vivi. Chiedeva a me, da teatrante, di aiutarla. Questa cosa mi ha dato una sensazione di orgoglio incredibile, tant’è che abbiamo inserito la vicenda nello spettacolo. Io veramente vorrei andare davanti a una persona qualsiasi e chiedergli: che cosa posso fare io per te, in quanto attore? Fino a che non riusciremo a guardare in faccia le persone che ci chiedono di aiutarle ad essere più presenti, non saremo mai ben consapevoli di quel che possiamo fare per la nostra società.

Federica: Io credo che si debba sempre far chiarezza sulle ragioni che ci spingono a fare tutto questo. Il
motivo per cui noi siamo qui non è riconducibile unicamente alla riapertura dei teatri. Per quanto mi
riguarda quello che sento mancare e che realmente mi porta a manifestare, a protestare e a compiere atti politici come quello di Zona Rossa, è la consapevolezza di avere a che fare con un ministero privo di
progettualità per il futuro. Non è tanto l’apertura o la chiusura dei teatri, non entrerei nel merito di quale
sia la scelta più giusta durante una pandemia. Quella che sento mancare è una progettualità concreta nei confronti di tutti i lavoratori dello spettacolo, che ad oggi si trovano con grandi incognite per i prossimi anni. Non è che domani riapri e timbri il cartellino, esistono persone a me molto care, artisti, che da quando è arrivata la pandemia si chiedono come potranno reinserirsi, e ancora non riescono a trovare delle risposte. Quindi quello per cui mi sento di manifestare, visto che le tasse le paghiamo e anche profumatamente, è il rivendicare una progettualità seria nei confronti di un intero settore che non si può spegnere o riaccendere a comando.

Licia: Ritorno alle cose dette da Daniele relative al sentirsi intellettuali o meno. Credo che se molti teatranti fossero degli intellettuali eviterebbero di augurare il male ad altri loro colleghi. Sono stata la prima ad aver subìto delle aggressioni personali il giorno che è stato detto che venivo qua. Parliamoci chiaro: ci sono alcune persone che avrebbero preferito che questa operazione andasse politicamente male.
Sappiamo che fuori ci attende l’inferno, lavorativamente parlando. Siamo tutti nella stessa barca, e
pratichiamo un mestiere che fatica ad essere riconosciuto proprio nella sua dimensione intellettuale. Non tutto deve essere riconducibile ai numeri e alle giornate lavorative. Io per fare un buono spettacolo ho bisogno di leggere moltissimi libri, sempre; c’è invece chi non lo fa, e il risultato poi si vede negli spettacoli. Motivo per il quale se fossimo in un’altra epoca, quello che abbiamo fatto, cioè mettere il nostro corpo al centro di una performance di natura politica ancor prima che artistica, non verrebbe disprezzato e non saremmo considerati dei deficienti che stanno divertendosi a fare il finto Grande Fratello. No, io ho messo il mio corpo politico a servizio di un momento storico importante, mentre molti altri non stanno facendo nulla. Pasolini diceva che gli storici raccontano la storia, mentre gli artisti ne raccontano gli umori. Noi li abbiamo vissuti a pieno questi umori, e abbiamo cercato di raccontare il nostro sentirci reclusi, messi da parte. Ci siamo interrogati su delle questioni intellettuali, e questo dobbiamo rivendicarlo, perché se ci fosse più cultura questo paese non verserebbe nelle condizioni attuali. Rivendico la questione intellettuale contro i numeri, rivendico i simposi, rivendico la letteratura. Questo paese ha bisogno di gente che studia, iniziando dalla scuola, da ragazzi che come voi lottano per conoscere il mondo, la realtà che li circonda.
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L’incontro, dopo circa un’ora, volge al termine. Ringraziamo Davide, Daniele, Alfredo, Federica, Licia, Pier Lorenzo e Matilde per aver accolto il nostro invito e per averci regalato un’ora di attenta e profonda
riflessione su quel che sta accadendo al nostro amato teatro. Nel nostro piccolo, da spettatori senza
spettacolo, senza cioè un posto in cui poter praticare l’arte dello stare insieme a teatro, ci sentiamo di
unirci al loro grido di protesta, convinti che questo non rimarrà inascoltato.

Walter Altamirano