#ShortTheatre2021 ー Il rischio di mettersi in ascolto: Dominio Pubblico incontra Piersandra Di Matteo

Articolo di Claudia Raboni

La sedicesima edizione del festival Short Theatre ha preso il via e Dominio Pubblico si è già messo in ascolto.
Nato nel 2006, il festival romano di arti performative si propone di immaginare nuove possibilità e alleanze che superino le differenze culturali o i confini disciplinari. Quindici anni dopo, Short Theatre è ancora forte dei suoi obiettivi, e quest’anno di occasioni di scambio e collaborazione ce ne sono state a partire dalla rinnovata direzione artistica, che vede al fianco di Francesca Corona, direttrice del Festival negli ultimi anni, la presenza entusiasta di Piersandra Di Matteo, che abbiamo avuto il piacere di incontrare a La Pelanda del Mattatoio di Roma, uno dei luoghi che ospiteranno l’edizione 2021 The Voice This Time. L’incontro tra queste due importanti personalità vuole essere un momento di passaggio e di condivisione di sguardi e voci, con l’intento di evocare nuove connessioni tra le pieghe della città.

Piersandra Di Matteo Nella scelta del titolo del festival abbiamo voluto porre l’attenzione sulla voce come evento corporeo della lingua ma non solo. Quando parliamo, la materia proferita, smette di appartenere a chi la pronuncia e diventa il campo elastico con chi ascolta. Short Theatre vuole inserirsi proprio nel mezzo, tra le persone, offrendo la possibilità di tendere l’orecchio e mettersi in ascolto. Questo significa essere implicati fisicamente e al tempo stesso mantenere attiva l’immaginazione. Il programma del festival tocca diversi temi e tenta di preservare un legame con i luoghi che attraversa: WEGIL, il palazzo di epoca fascista, viene attraversato mettendone in discussione il linguaggio coloniale e tentando una decolonizzazione dell’arte. Tra performance poetica e interventi teorici si cerca di comprendere il ruolo del teatro e della performance rispetto alla poesia e di interrogarsi sulle possibilità del corpo performativo quando si mette in discussione il linguaggio. 

 

 

 

Quindi c’è un forte legame tra Short Theatre e la città di Roma: quali sono le peculiarità, nel bene o nel male, di questa città e come si sono attivate le collaborazioni con le diverse realtà locali?

Roma è complessa, imprendibile, fatta di “buchi” in tanti sensi: Short tenta di abbracciare la città, di creare un pubblico quanto più diverso possibile, fatto soprattutto di cittadini, che siano o meno interessati all’ambito performativo. Con il progetto RECIPROCITY stiamo cercando di attivare progetti partecipativi, in collaborazione con realtà che si spendono per l’accoglienza e l’inclusività in ambito sociale e culturale. Insieme a loro e a diversi artisti abbiamo creato dei laboratori volti a creare tessuti di incontro e connessione tra persone di diverse parti della città. Tra gli artisti, ad esempio, c’è Amanda Piña ー coreografa cileno-messicana che studia le danze in via d’estinzione ー che, con la performance Frontera/Procesión. Un ritual de agua, insegnerà una danza moresca a trenta donne per poi dar vita a una rituale collettivo che arriverà fino alla Fontana delle Anfore di Piazza Testaccio. Sarà rischioso, non possiamo prevedere cosa accadrà ma l’obiettivo di Short è anche questo: creare relazioni e proporre esperimenti che possano anche fallire. Mi piace il termine “connettività”, e peregrinare da un’associazione all’altra è un modo per instaurarla. Vediamo cosa succederà negli anni. 

Tornando al concetto di decolonizzazione dell’arte, Short Theatre sembra presentare una proposta artistica molto variegata e all’insegna della multiculturalità: c’è una volontà di portare “l’Altro” all’attenzione del quotidiano?

Quello che Short tenta di fare, non solo da adesso, è concentrarsi soprattutto sui linguaggi artistici. Mi piace parlare di interrelazione o interazione tra corpi e spazi: Short è dunque inteso come uno spazio aperto e inclusivo, da coltivare e praticare. Il festival si dichiara antirazzista e transfemminista: è un orizzonte di scelta, che si connette ai temi del Sud globale.

Forse si sbaglia dal principio utilizzando termini come “inclusione” piuttosto che “interazione”…

Esattamente. Il termine “inclusione” presuppone che ci sia una dissimmetria, qualcosa da includere, Quando si parla di inclusione, e si parla di migrazione, si stigmatizza il migrante come qualcuno caratterizzato da un difetto da colmare, qualcuno che ha abbandonato la propria casa una volta per sempre, e definito come uno sradicato ontologico. Una sorta di marchio indelebile, un modo che non tiene in giusto conto la materialità dei processi di soggettivazione; la possibilità di mettere nuove radici dà vita ad altre parentele.

Al centro dell’edizione di quest’anno sembra essere essenziale l’equilibrio tra saper ascoltare e farsi ascoltare. Noi cercheremo proprio di porci in questa intercapedine, fra l’urlo e il silenzio. Le sembra una giusta chiave di lettura?

Avete colto il punto. L’ascolto è una dimensione elastica. Ascoltare è una scelta e l’ascolto è connesso al tema della giustizia e alla dimensione politica: chi ha diritto di essere ascoltato e come fare perché tutti vengano ascoltati? Credo che un giovane spettatore debba attraversare Short Theatre senza preconcetti ma lasciandosi, invece, trasportare da ciò che vedrà. Credo sia un buon modo per guardare o meglio ascoltare il festival.

Trova che Short sia riuscito a cambiare il punto di vista delle persone, ad educare il pubblico?

La domanda è molto importante, forse una delle più radicali che una curatrice e il suo team dovrebbero porsi durante la progettazione di un festival. Tuttavia, non credo che l’arte debba educare o indicare un unico punto di vista da seguire, l’arte non è didattica: nella programmazione di quest’anno ci sono performance che possono contraddirsi tra loro. L’arte dovrebbe proporre immaginari capaci di spostare e alimentare la percezione del mondo, e quindi è fondamentale chiedersi: cosa può un festival rispetto alla creazione degli immaginari? Certamente non bisogna essere naive ma fare molta attenzione a come ci si rivolge al pubblico che io considero sempre capace di abitare attivamente una programmazione esigente come quella proposta dal festival e trovo che in questi anni Short abbia mostrato ampi scenari e introdotto tematiche delicate, correndo dei rischi. Rischiare di non essere compresi fa parte di questo lavoro: molte persone non sono più tornate ma altrettante sono rimaste decisamente colpite. I linguaggi sono fondamentali in questo, ogni anno la comunicazione si modifica rispetto al concetto che si vuole trasmettere: ad esempio la nostra scelta di non mostrare foto degli artisti nel catalogo è un piccolo segno che sposta l’attenzione, che non è solo rivolta a loro ma a tutte le persone che abiteranno il festival. 

D’altronde, se una proposta artistica riesce a dividere il pubblico forse ha già fatto il suo dovere…

Sono d’accordo.