ANTIGONE

La Compagnia Lombardi – Tiezzi torna in scena per il Teatro di Roma a due anni dal complesso e onirico Calderòn di Pasolini e contemporaneamente a Freud o l’interpretazione dei sogni in scena al Piccolo e con la regia di Federico Tiezzi. Questa volta il regista dirige Antigone, la tragedia sofoclea con cui si era già messo alla prova nel 2004 con la riscrittura del testo firmata da Brecht, ora invece, la traduzione del testo greco è stata affidata a Simone Beta che ha condotto un lavoro certosino sulla lingua, rendendola un vero e proprio strumento attraverso cui veicolare la distanza politica e umana tra Creonte (Sandro Lombardi) e Antigone (Lucrezia Guidone).

La realtà in cui si muove l’eroina greca sta perdendo le sue certezze e i suoi capisaldi e lo spettatore lo intuisce sin da subito grazie alla scelta di proiettare, sul sipario ancora chiuso, statue, busti, colonne e altri simboli del mondo greco che precipitano e si frantumano. Antigone è la tragedia dei contrasti e dell’inconciliabilità, lo scontro è tra le leggi politiche e le leggi divine ma anche tra due generazioni e soprattutto tra uomo e donna; le scelte registiche di Tiezzi sono tutte tese a sottolineare questa polarità che non può avere soluzioni.

L’ambiente in cui si sviluppa la tragedia di Tiezzi è quello di un obitorio, un luogo di passaggio tra morte e sepoltura, dove si muove anche il coro costituito da cinque morti tornati in vita per obbedire alle leggi di Creonte, nuovo sovrano di Tebe, il cui volto truccato di bianco, come il regista ama fare, ci trasporta da subito in una dimensione al confine tra l’angosciante e l’onirico. L’editto promulgato dal re Creonte prevede che il cadavere di Polinice, fratello di Antigone, rimanga “senza tomba e senza lacrime” essendo morto combattendo contro la città di Tebe, ma la donna legata ai valori del passato, alla tradizione e al ghenos familiare non può accettare una legge voluta da un uomo e non dagli dei, anche perché questa la farebbe sentire ancora più orfana di quanto già non sia, lei figlia di Edipo condannata a scontare la colpa del padre.

Ecco che sin da subito è evidente come uomo e donna siano l’uno l’opposto dell’altro, guidati da ideali diversi ma accomunati dal desiderio di affermazione che li porterà in entrambi i casi a macchiarsi di colpe.
Antigone è sola in questa sua battaglia destinata al fallimento, sua sorella Ismene, unica sopravvissuta della famiglia, è una donna rassegnata che vive la propria condizione femminile con un senso d’inferiorità che la porta «a obbedire a chi ha il potere». L’eroina dà degna sepoltura al fratello ma viene colta sul fatto e per questo condannata a morte, non basteranno neppure le parole di Emone, suo promesso sposo e figlio di Creonte, a dissuadere il padre dalla volontà di rispettare le leggi da lui stesso imposte.

Il peccato di ubris costerà caro al nuovo re e ad annunciarglielo è l’indovino Tiresia, qui interpretato da Francesca Benedetti in modo originale e quasi fantastico; le Erinni, divinità della vendetta, puniscono Creonte attraverso la morte prima di Emone, che si suicida e si abbandona a un “liquido abbraccio” con il cadavere della sua promessa sposa, poi tramite quella della moglie Euridice e dell’altro figlio Megareo. A Creonte non rimane che invocare la morte anche per se stesso.

La regia è curata nei minimi dettagli: le luci, i vestiti, le musiche arabeggianti, la scenografia dell’obitorio, gli scheletri di tutta la dinastia di Antigone, presenti nella seconda parte dello spettacolo a ricordare il triste destino a cui la donna è condannata, ecco tutto questo contribuisce a una messa in scena magistrale.
A chiudere la tragedia arrivano delle figure vestite di giallo e munite di idranti, sembrano provenire da una dimensione futura, arrivati a pulire il pavimento coperto di sangue, forse solo i posteri potranno interrompere la ciclicità della colpa e spazzare via le colpe perpetuate dai padri.

Diletta Maurizi