ACCABADORA

La femina accabadora, in Sardegna, era colei che aiutava a morire persone di qualsiasi età in gravi condizioni, tali da portare il malato o gli stessi familiari a richiederne l’eutanasia. Bonaria Urrai, sarta che vive da sola a Soreni, è un’accabadora e lo sanno tutti nel paesino; tutti, tranne sua fill’e anima Maria, che scopre la vera natura della madre dalla confessione dell’amico Andrìa, il quale coglie sul fatto la donna mettere fine alla vita del fratello Nicola, amputato di una gamba.

«…anima e fill’e anima, un modo meno colpevole di essere madre e figlia», recita Maria, interpretata dall’attrice Monica Piseddu sul palco del Teatro India di Roma: Tzia Bonaria è la madre adottiva di Maria, quarta e ultima figlia indesiderata, orfana di padre, ed è la sola madre, quella che l’ha cresciuta, che si è presa cura di lei e che le ha offerto un futuro. Un tempo, quella di affidare i propri figli ad altre persone, della famiglia o meno, era una pratica diffusa, quasi naturale, che non creava scalpore; è interessante la scelta della regista, Veronica Cruciani, di portare in scena questo rapporto madre-figlia alternativo, non biologico, che difficilmente si ritrova in una famiglia nei giorni nostri e che rappresenta un modello diverso di società. La storia, tratta dal romanzo Accabadora di Michela Murgia, viene raccontata attraverso un monologo che ha inizio a Torino, città dove Maria fugge per chiudere con il passato dopo aver smascherato la doppia vita di Bonaria e che lascia, ormai donna, per tornare in terra sarda quando la Tzia è sul punto di morte. Le parole di Maria, miste di rabbia e angoscia, non sono altro che il dialogo tra lei e la madre,
riadattato nella drammaturgia di Carlotta Corradi a soliloquio interiore di cui è protagonista la ragazza e non l’anziana signora, sulla quale pone l’attenzione, invece, la Murgia. L’attrice non è completamente sola: sul fondale c’è una parete grigia, che rappresenta il suo spazio mentale, sulla quale viene proiettata la sua immagine vista da più prospettive e da cui provengono suoni tenebrosi, che incupiscono la scena.

Un lavoro sofisticato, nel quale è possibile rintracciare una forte presenza registica e una riscrittura originale del testo, che, oltre ad offrire un pensiero su due grandi temi, quali l’eutanasia e la maternità, vuole far riflettere sul ruolo fondamentale che gioca un genitore, in questo caso la madre, nella crescita di un figlio.

Arianna Di Bello