Reality Wonder Wheel? A game? A play? Anymore.

Cazzo piove.

Ci andremo lo stesso alle giostre? Perché così mi si promise giorni fa. So molto bene però quanto il meteo influisca sugli adulti, come se il fatto di essere bagnati dall’alto escluda poi la possibilità di asciugarsi.
Madre, padre non mi fate cazzate e portatemi subito alle giostre, è appena nuvolo, ancora neanche un sussurro di pioggia, quindi per favore, tu gira quella chiave e tu infilami il cappotto che ancora non ci riesco troppo bene. 

No, “con questo tempo non si va da nessuna parte. 

E allora giù capricci, urla, strepiti, minacce di pittoreschi suicidi (credevo che bastasse trattenere il respiro per morire soffocati, maledetto istinto di conservazione ti fotterò prima o poi) fino alla stanchezza per le troppe grida, occhi rossi, quelli del pianto liberatorio e una tazza di te e le gambe di mamma cancellavano ogni ricordo di autoscontri, tiri al bersaglio e calcinculo. 

Ora ti do un’occasione, non è che devi legger per forza, la prendo da lontano come piace a me, qui è un’ottima occasione per interrompere la lettura oppure lo sarà per mettere su una bella musica e provare a fare dei ricordi un po’ di argilla per il futuro; ed ora andiamo avanti.

La verità è che io alle giostre non ci volevo andare davvero. 

Come?! -direte- Fai tutta questa piazzata da psicopatico, rubando salute ai tuoi genitori e tempo a noi lettori e manco ci volevi andare?!

“NO IO ALLE GIOSTRE NON CI VOGLIO ANDARE”

O meglio, vorrei sapere come andarci. 

Non so voi, ma intorno agli otto o nove anni, vivevo questa strana attrazione e repulsione per quel posto. Tutto pieno di cose che mi attiravano ed al contempo i primi incontri sociali involontari: 

Bambino molesto X: Ciao, sei in fila anche tu?

Io: Mh 

Bambino molesto X: Ieri ci ho fatto otto giri e il padrone della giostra mi ha regalato due gettoni

Io: Mh mh

Bambino molesto X: Ne vuoi uno, magari facciamo un giro insieme

Io: Magari, così può venire anche mio pa…

Bambino molesto X: Ed io non te li do papappero! Li ha regalati a me papappero!

Ma maledetto figlio di puttana partorito controvoglia, hai mica presente che il mondo non finisce con te e magari posso anche provare dispiacere o potresti farmi piang…

Ed infatti il ricordo prosegue con me avvinghiato all’enorme coscia di mio padre che piango ed emetto suoni confusi, più simili ad una zebra sgozzata che ad un bambino.

Non ci voglio andare alle giostre perché non so chi incontrerò. Non ci voglio andare perché quella cosa li assomiglia molto al mondo fuori. 

Arrivi paghi, prendi gettone, dai gettone, fai gioco, vinci o non vinci il gioco finisce e tutto va avanti senza di te. Non è importante che tu sia triste o felice. L’importante è il mantra. Paga, prendi gettone, dai gettone…

Il senso di inadeguatezza di fronte ai coraggiosi che si facevano settordici giri sulle giostre che avrebbero fatto vomitare una lavatrice, i pugili che a otto anni erano chiaramente sotto steroidi altrimenti non capisco quei punteggi (una volta provai, non visto, nemmeno da me stesso forse, risultato? Dovetti inventare di essere caduto per giustificare il danno osseo subito) e poi c’erano i sadici che monopolizzavano gli autoscontri, forse associati con compagnie assicurative visto che puntavano a crearti danni permanenti alla spina dorsale, poi i cecchini che con enormi peluche e grandi sorrisi annichilivano ogni speranza che quei fucili fossero truccati, infine gli Dei, i Re del calcinculo. 

Rigorosamente dai dodici in su, gente tosta, ganza che quasi le vedevi fumare quelle sigarette di gomma.

Il gioco più ambito, perché? 

Perché su quella giostra il giro poteva diventare eterno. Prendendo quella coda o fiocco o laccio emostatico di turno, vincevi un altro giro! La giostra eterna, il moto perpetuo del divertimento, la giustificata alienazione dalla realtà per una missione di vitale importanza. Un altro giro. Un altro giro. Ancora un altro giro.

Li c’era il vero scontro con la realtà. La giostra della realtà. (No, non è Jodorowsky, quella era la Danza della realtà)

Primo ostacolo: l’altezza, se eri sotto un certo “standard” eri fuori.

Secondo ostacolo: vertigini e velocità centrifuga, ergo se soffri delle prime e sei debole di stomaco, sei out

Terzo ostacolo: trovare un compagno, altrimenti che fai prendi a calcinculo gli sconosciuti?

Quarto ostacolo: una musica atta a cancellare ogni forma di serenità acquisita fino a quel momento.

Ed infine l’ultimo ostacolo: la fine, che se non sai accettare che anche la giostra finisce poi il trauma entra sotto pelle e te lo porti dietro un po’ ovunque come un cane da compagnia.

Alle giostre non ci volevo mai andare davvero, perché vedevo gli altri esserini sociali sempre allegri, ma cosa diavolo hanno da essere così allegri, che bastano due gocce d’acqua a fermare tutto, ma non lo vedete che qui non c’è rimasto proprio un cazzo da ridere?

Non vedete che c’è qualcuno che alle giostre non c’è mai venuto perché non può? Cosa ridi quando vedi il bimbo che piange perché bullizzato in quanto non è un cyborg in grado di sfondare il punchball? Lei presa in giro perché grassa, lui rispettato perché violento neo-bullo. 

Cosa c’è da essere felici quando sulla giostra sale un bimbo da solo e sa che girerà solo per vedere gli altri lanciati in alto, verso quella coda, a guadagnarsi un altro giro e tu, io, incapaci di raggiungere quell’obbiettivo. 

E quando il giro finirà la giostra si fermerà, la musica si abbasserà un po’, la tristezza come un mantello ti copre da ogni pioggia, la vista si fa annacquata e solo alzando lo sguardo, gli occhi di lei, con lo zucchero filato appena preso ti sbatte in faccia la realtà:

quella giostra era solo una scusa per una sorpresa. Non era quello il gioco, non è quella la giostra. 

Il calcinculo si fa con i piedi a terra, con la bocca piena di zucchero filato rubato dalle mani di una madre “che vorresti congelare per essere sicuro che ci sarà sempre” ad aspettarti al termine di un brutto giro.

Ed allora facciamolo, prendiamo chi ci è davanti e lanciamolo a prendere quella coda per fare un giro migliore, diamo un calcinculo all’ego che ci fa girare tristi, e facciamo che questa giostra lo decidiamo noi a che velocità mandarla e che si entra tutti e la facciamo sempre più grande e bella, perché io lo voglio pensare così un giorno di pioggia alle giostre. Lo voglio e diverrà questo. Questi gettoni non finiscono mai e continuo a provare. Quindi tutti su che parte il giro. Giochiamo insieme altrimenti “in questo tempo” non andiamo da nessuna parte”.

Però sbrigatevi, per favore, che lo zucchero filato è quasi finito. 

Alejandro De la Vega

DAL 5 AL 15 SETTEMBRE 2018
SHORT THEATRE – ROMA
Provocare Realtà