Kilowatt Festival – L’energia della scena contemporanea – diversi perché umani
#DAY3
“Partecipare è avere il coraggio di parlarsi guardandosi negli occhi, di confrontarsi, di conoscersi,
restituendo alle parole e al linguaggio che cerchiamo la suprema funzione di comunicare, tra persone in
carne e ossa. Partecipare non richiede né azioni né parole eroiche, in questo tempo che miseramente è alla ricerca di eroi. Partecipare è un atto di responsabilità.” lo Staff di KilowattFestival
Ci corichiamo all’alba dell’ultimo mattino. Non troppe ore di sonno, devo ammetterlo, ma la frenesia e la
voglia di vivere ancora questi attimi, il bisogno di divorare ancora tutta la bellezza che mi circonda, mi tiene
sveglia. Ed eccoci, pare proprio che siamo arrivati alla fine del nostro percorso; un viaggio attraverso la
comunicazione, attraverso le parole, la loro bellezza, il loro significato; un viaggio attraverso la scoperta di
una parte di noi che ancora si nascondeva sotto la nostra pelle, ma che premeva per emergere; un viaggio
attraverso il fascino e la dolcezza del bello e del bello che molto spesso diventa anche “utile”, attraverso
l’impegno e le storie degli artisti che oggi cercano, ancora e con estremo vigore, di parlare al mondo con la
lingua del cuore, di scogliere la barriera tra ciò che da sempre siamo e ciò che stiamo diventando.
Poco prima che il sole cominci a schiarirsi e a confondersi nel chiarore del cielo serale, ci rechiamo al
Palazzo delle Laudi, per assistere a lavoro di Silvio Amendola, che ha più il sapore di un’esperienza
collettiva, di comunità. È proprio l’atmosfera della comunità quella che ci viene suscitata sin da subito,
quando l’attore, Valerio Malorni, ancor prima di calcare la scena, prende per mano quattro spettatori e li
conduce con sé, sul palco. In quell’atmosfera suggestiva a cielo aperto, assistiamo alla ricreazione e alla
ricostruzione di un clima da centro sociale, un viaggio che percorre l’esile filo della ricerca dell’identità, un
mood di perenne asfissia, astrazione, un sogno odoroso di giovinezza perduta e fallimento sociale che
spesso si traduce nell’anticipazione di un incubo da cui è difficile svegliarsi. L’attore suona il pianoforte e
racconta, rivive i suoi ricordi come se fosse trasportato da un flusso di coscienza. Noi non possiamo che
arrenderci di fronte alla profonda immedesimazione nelle sensazioni da lui descritte. La rappresentazione si conclude con un momento di dialogo, in cui è ancor facile lasciarsi trasportare e abbandonare alla
comprensione di ciò a cui abbiamo assistito e del processo a monte del risultato.
Fortissime emozioni, insomma, ci scorrono nelle vene e palpitano tra il pubblico che viene condotto, subito
dopo, al Teatro della Misericordia, dove è pronto ad assistere a una performance di danza: una
composizione forse completamente diversa, che poggia su altri binari e si serve di ben altri codici, ma che si nutre anch’essa di una forte passione e del bisogno, sempre insaziabile, di condivisone. Mi ritrovo di fronte al coreografo olandese Shaliesh Bahoran e al breakdancer Redoun Ait Chitt, due vividissime personalità, due giovani ragazzi direttamente dall’Olanda che ci mostrano, con estrema intensità e con una chiarezza spiazzante e a tratti cruda, il loro cammino verso la disciplina e la riconquista della forza di volontà. Una scena cosparsa dall’alto di luci fluttuanti, si respira con loro il profondo senso di determinazione, l’invalicabile necessità di rivalsa e consapevolezza di se stessi, il disfacimento di ogni limiti di fronte all’inesauribile vigore dell’animo umano. Una danza che porta ad emozionarsi, in prima istanza, e poi a pensare: quante sono le certezze che diamo per scontante? Quanto è labile il confine tra sopravvivenza e rinascita, soprattutto in un mondo in cui incombe su di noi uno sprezzante sentimento di disamore nei confronti della vita?
Il pubblico non parla più, non ride, tutti cercano di far fronte ai propri scossoni interiori, tutti cercano di
ascoltare quel germe buono, quel piccolo spettro che vaga tra ventre e polmoni.
Scossi.
Ma ravvivati nell’intimo da questa catarsi collettiva, ci avviamo in quella che è ormai diventata la
mia location preferita: il Chiostro di Santa Chiara, sotto le stelle! Immersi nell’incalzante ritmo della natura,
assistiamo alla prosperità, all’unione dei corpi, alla mescolazione. ‘’Graces’’, le grazie, opera di Silvia
Gribaudi, portatrice della poetica del corpo, di cui diviene autrice; un corpo che vibra e prende varie forme nello spazio, che crea una danza che va talvolta aldilà del proprio controllo. Una scena bianca, nel buio della notte, quattro perfomers, un ampissimo pubblico dal fiato sospeso e occhi incantanti. Sembra di aver fatto il conto di tutti i perfetti ingredienti volti alla creazione di un’unità corporale unica, una ricerca del bello antico e del modo in cui esso si coniuga nelle contingenze quotidiane. Servendosi di autoironia, fascino e carisma, l’autrice pone l’accento, in maniera positiva e del tutto costruttiva, sulla plasticità e sulla
consapevolezza del corpo, nostro involucro sensibile, che diventa nudo ma al tempo stesso invisibile.
Tutto il processo si concentra sulla stilizzazione della figura, una composizione a quadri, una sorta di tableux vivants delle opere del Canova, ed è contemporaneamente animato dalla contagiante partecipazione totale del pubblico, che non riesce a trattenere le risa e la meraviglia.
Ed eccoci alle ultime danze, alle ultime birre, ai saluti pieni di sospiri, malinconici e già nostalgici.
Questa notte si passa a piedi scalzi, a cantare sulle note di Massimo Marches e a ballare sul prato del DopoFestival.
Sento ancora e sempre più vivo quel senso di interconnessione, sento la mia pelle accendersi e parlarmi,
sotto queste stelle, circondata da una rosa di schegge umane.
Non dimenticherò facilmente quest’esperienza.
Non so se posseggo le parole per ringraziare lo Staff di KilowattFestival per avermi dato quest’opportunità.
Ho sentito qui, con voi, in questi giorni, cuori palpitanti di effettiva partecipazione: c’è voglia di fare, di condividere, oltre la retorica, oltre l’affermazione dell’autorità d’una singola idea rispetto alle altre. Si tende qui concepire la partecipazione come un vero e proprio atto di vita e di esistenza: una riflessione sugli eventi che non tenda al fine ultimo della messa in vetrina di ciò che abbiamo raggiunto, di ciò che abbiamo capito. D’altra parte, è proprio questo lo spirito partecipativo di cui oggi si sente più la mancanza: un esserci bonificato da ogni forma di protagonismo o istrionismo, l’esserci in maniera cosciente, la metabolizzazione della propria presenza intellettiva oltre che fisica, l’ascolto prima del dibattito. Ed è chiaro che viaggi come questo non possano far altro che rafforzare nei nostri cuori la necessità di espanderci all’interno e all’esterno, il bisogno e la voglia di non perdermi, di partecipare, perché siamo diversi perché siamo umani, perché partecipare è giusto, è normale!
Grazie.
Le foto sono di Elisa Nocentini e Luca del Pia / Staff Kilowatt Festival