#DPINZOOM: Aspettando Ottantanove con i Frosini/Timpano e Marco Cavalcoli

Il nostro percorso da spettatori attivi sarebbe dovuto partire da Ottantanove, lo spettacolo della compagnia Frosini/Timpano, affiancata da Marco Cavalcoli, della compagnia Fanny & Alexander. Quando li abbiamo invitati a partecipare alla nostra prima riunione, il progetto #DPinZoom non era ancora partito, perciò li abbiamo incontrati di nuovo per approfondire meglio il loro più recente lavoro artistico e la loro prospettiva culturale e sociale sul futuro della nostra comunità europea.

Mariolina Falone: Partiamo da Ottantanove. Ci raccontate com’è nato questo spettacolo?

Elvira Frosini: L’idea è nata due anni e mezzo fa. È stato un lavoro che ha avuto un lungo processo di creazione, soprattutto di scrittura. Nei nostri lavori parliamo del presente partendo sempre da eventi storici. In questo caso, abbiamo pensato di parlare della Rivoluzione francese del 1789, evento originario dei sistemi democratici, come data di nascita del mondo occidentale di cui oggi facciamo tutti parte, e in particolare di quello europeo. Da lì facciamo un grande salto fino al 1989, anno della caduta del muro di Berlino, che ha posto fine alla fase di modernità aperta dalla Rivoluzione francese, dando inizio a sua volta all’epoca in cui ci troviamo oggi, quella post-moderna. A questa infanzia storico-politica del mondo contemporaneo si intrecciano poi anche le nostre storie, i nostri ricordi più intimi e personali, e quelli della nostra generazione. In questo modo cerchiamo di porci e porre delle domande riguardo il senso ultimo d’una democrazia, dello Stato di diritto su cui si basa la nostra Costituzione insieme ad altre, soprattutto in questi ultimi anni in cui le democrazie in Occidente hanno attraversato e continuano ad attraversare dei momenti di grande crisi.

Daniele Timpano: Sempre rimanendo fedeli alla linea logica suggerita dal titolo del nostro spettacolo, abbiamo fatto un ulteriore parallelismo, magari un po’ forzato, ma forse proprio per questo affascinante. Abbiamo cioè paragonato la percezione che quelli della nostra generazione ebbero, in età giovanile, degli ormai ex-terroristi degli anni ‘70, con quella che molti in Francia ebbero nei confronti dei protagonisti del Terrore rivoluzionario del 1793: così come questi ultimi venivano all’epoca invitati nei salotti dell’alta borghesia, allo stesso modo i primi- ci tengo a ribadire che si tratti di un collegamento un po’ azzardato – vennero verso la fine del Novecento intervistati da autorevoli giornalisti, alcuni riuscirono persino a pubblicare dei libri.

Ottantanove – Teatro di Roma

M.F.: Quali sono i personaggi di Ottantanove?

E.F.: Noi non pensiamo mai a dei personaggi veri e propri nel senso classico del termine. In Ottantanove ci siamo semplicemente noi: Elvira, Daniele e Marco, ma senza i nostri nomi. Siamo A, B e C, tre individui molto isolati che fanno fatica a recuperare il senso dello stare in comunità, ognuno fatalmente intrappolato nel proprio individualismo. Più che una storia, A B e C affrontano un viaggio alla ricerca della propria coscienza collettiva, recuperando reperti storici e ricordi personali, in continuo e reciproco rimescolamento.

D.T.: Tutti i nostri lavori possono essere visti come dei viaggi di formazione che facciamo in scena attraverso riferimenti a precise epoche storiche, come in questo caso, e che speriamo facciano anche gli spettatori con noi. Il nostro obiettivo è quello di generare relazioni, prima di tutto fra di noi che siamo in scena, e poi fra noi e il pubblico. Queste relazioni possono essere di tanti tipi, come di complicità in alcuni momenti o di conflittualità in altri, e possono cambiare in continuazione, prova dopo prova. In questo modo facciamo sì che il testo drammaturgico sul quale ci troviamo a lavorare ne risulti sempre mutevole e dinamico, pronto ad essere ritoccato secondo le esigenze della scena. Per Ottantanove, ad esempio, ci siamo resi conto che ogni battuta cambia a seconda di chi la legge, creando fra gli interpreti relazioni che si rinnovano di volta in volta.

M.F.: Marco, qual è stata la natura del tuo contributo? Soltanto attoriale o anche autoriale?

Marco Cavalcoli: Direi soltanto attoriale, dato che sono arrivato quando Elvira e Daniele lavoravano da ormai più di un anno su Ottantanove e il testo era grosso modo quello attuale, essendo già stato presentato al Riccione TTV Festival ed avendo già ottenuto all’interno dello stesso la menzione Franco Quadri. Il mio contributo non è stato perciò ideativo, ma è stato quel contributo “di presenza” che contraddistingue il lavoro dell’attore: non tanto un compito professionale quanto un’occasione di creazione poetica. Quello che mi ha sùbito colpito del lavoro drammaturgico è stato il fatto che fosse, proprio come diceva Daniele, estremamente aperto. Il lavoro, per quanto abbia una direzione molto chiara nella mente e nel cuore degli autori, rimane comunque un lavoro destinato alla scena teatrale, e quindi già pronto a vivere delle inevitabili modifiche che questa imporrà. Ottantanove peraltro, come gran parte dei lavori di Frosini/Timpano, ha una forma scandalosamente interrogativa, anche quando fa delle affermazioni molto precise. Il suo è un testo sì tripartito ma potrebbe essere reinventato in tanti modi: così come ha permesso a me di entrare in questo universo concettuale, accogliendo le mie personali idee sugli ultimi 200 anni della storia dell’Occidente, credo che sia anche capace di coinvolgere il pubblico in una maniera a suo modo universale. Assistendo ad Ottantanove si viene messi di fronte a quanto di ciò che è nato nel diciottesimo secolo abbia informato di sé il nostro presente. Si tratta quindi di un modo per riflettere su cosa portarsi dietro nel momento in cui questo stesso presente va evidentemente disgregandosi e dissolvendosi, non trovandosi più l’Europa a svolgere, nei confronti del resto del mondo, quel ruolo guida che in passato le è stato a lungo riconosciuto. Credo che Ottantanove permetta di portare avanti questa riflessione fino in profondità, accogliendo dentro di sé diverse prospettive e punti di vista.

M.F.: In seguito all’avvento della pandemia, avete rimesso in discussione il lavoro fatto?

E.F.: Certo. Questa situazione ha portato ancora più a galla le domande che sono dentro questo lavoro, e se vogliamo ne ha anche riformulate alcune. Una su tutte: che tipo di equilibrio siamo tenuti a ritrovare dopo un evento pandemico di questa portata? O ancora: quante e quali prospettive future ha davanti a sé l’Europa?

M.F.: Mi piacerebbe a tal proposito parlare con voi dello European Theatre Forum (ETF) 2020, che si è da poco concluso, avendo riunito per la prima volta 150 persone da 27 paesi europei per parlare delle prospettive del settore danneggiato dalla pandemia. Siete venuti a conoscenza di questa iniziativa? Cosa ne pensate?

M.C.: No, non ne ero a conoscenza e vi ringrazio per l’informazione. Per quella che è stata la mia esperienza con i Fanny &  Alexander nei primi anni 2000, posso dire che il teatro in Europa ha delle modalità basate su degli interscambi culturali molto forti nella zona che sta tra Londra, Parigi, Berlino e Bruxelles, che sta recentemente ponendosi il problema di un linguaggio che superi i confini nazionali. Peccato che questo tipo di ricerca ancora manchi in Italia. Quando ho iniziato a fare teatro il contributo delle compagnie europee era di tipo nazionale: per capire che tipo di spettacoli venissero realizzati in una determinata nazione non c’era altro modo che andare in quella stessa nazione. Oggi invece si è cominciato a sviluppare un linguaggio comune e assimilabile, per cui gli spettacoli prodotti in un Paese riescono a circuitare in buona parte d’Europa. Francamente io faccio fatica a capire come sia possibile mettersi insieme per cercare di rispondere ad una crisi di tale portata quando un linguaggio europeo si è sviluppato solo negli ultimi decenni, peraltro con un’evidente frattura tra questo e i restanti linguaggi locali, che esistono da ben più tempo. Servirebbero delle politiche condivise, e non solo per il settore
teatrale. Sono contento che esista lo ETF e spero che ne venga fuori qualcosa di buono, ma devo ammettere di essere piuttosto disilluso da questo punto di vista: più che un’Unione nel vero senso del termine, siamo un insieme di 27 Paesi sovrani che non riescono ad andare nella stessa direzione.

E.F.: Forse qualcosa si sta vagamente muovendo a seguito della pandemia, la notizia dello ETF ne è una prova. Anche le più recenti manovre, come quella legata all’istituzione del cosiddetto recovery fund, lo dimostrano. Certo bisogna vedere cosa ne faremo. Riguardo il teatro, e più in generale la produzione della cultura e del pensiero, credo sia difficile che dall’alto, a livello legislativo, si possa stabilire una
linea comune. Sarebbe più sensato favorire sempre più degli scambi interculturali, così che possano essere gli artisti a creare nel tempo un contesto di reale condivisione.

D.T.: Da alcuni anni si parla del Manifesto di Gent del regista svizzero Milo Rau. Questo manifesto presuppone le regole dello spettacolo militante europeo e mondiale. Sono anche io d’accordo col fatto che ci sarebbe bisogno di un contesto più concreto. Ecco magari il Decalogo di Rau, che indica una certa visione del teatro politico in Europa, prevedendo spettacoli con determinate caratteristiche, come ad esempio quella plurilinguistica, e garantendo agli stessi un’ampia circuitazione aldilà dei confini nazionali, potrebbe costituire un esempio per il futuro.

M.F.:Ottantanove potrebbe inserirsi in questo ampio contesto europeo di cui state parlando?

E.F.: Assolutamente sì: parla dell’Europa, delle sue e quindi delle nostre origini.

D.T.: Ottantanove contiene cose che sono riconoscibilmente italiane, innanzitutto la lingua, e poi tutta la nostra tradizione letteraria, ma queste vengono inserite in un contesto europeo se non addirittura universale.

M.C.: Diciamo che è uno spettacolo, mi si passi il termine, pienamente glocal! È proprio questo che oggi si ricerca maggiormente nei racconti: parlare di temi universali da un punto di vista molto specifico, per riuscire a recuperare un rapporto con la diversità in un contesto condivisibile.

M.F.:I testi contenuti dalla playlist Aspettando Ottantanove, che avete creato in seguito alla seconda chiusura nazionale dei teatri attraverso la collaborazione con vostri colleghi che si sono prestati alla lettura, risalgono tutti al diciottesimo e al diciannovesimo secolo. Ci sono a vostro parere testi a noi più recenti capaci di continuare la riflessione alla base di Ottantanove?

E.F.: Sì certo. Nello spettacolo citiamo il “Marat-Sade” di Peter Weiss. Dovendo pensare a dei testi che non abbiamo inserito nel nostro lavoro, mi viene in mente “Ça ira. Fin de Louis” di Joel Pommerat, commediografo francese che ha anch’egli riflettuto sulla Rivoluzione francese, ponendosi interrogativi su questioni che ci riguardano ancora oggi.

D.T.: Sempre nello spettacolo facciamo riferimento a diverse opere di Federico Zardi, un drammaturgo italiano che è stato molto famoso tra gli anni ’50 e gli anni ’60 e che alla Rivoluzione Francese ha dedicato un ciclo, riflettendo anche lui come noi sul presente attraverso il passato. Ci ha incuriosito talmente tanto che stiamo cercando di sviluppare un progetto parallelo sui suoi testi!

M.C.: Un libro molto recente che credo interpreti benissimo il nostro presente politico è “Capitalismo contro capitalismo” di Branko Milanovic. La sua è una intelligente trattazione di come il capitalismo di stampo ex-liberale, di matrice europeo-americana, e il capitalismo a controllo politico, come quello cinese, si stiano scontrando e anche in qualche maniera incontrando a metà strada, determinando il futuro economico e politico del pianeta.
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Ringraziamo Elvira Frosini, Daniele Timpano e Marco Cavalcoli per la loro disponibilità. Le loro risposte saranno punti di partenza per riflessioni e approfondimenti sul nostro status di cittadini europei, per noi che stiamo Aspettando Ottantanove e che speriamo di vederlo al più presto.

Mariolina Falone