#YOUNGBOARD – Dominio Pubblico sbircia dentro Fondamenta: Percorso 5 con Romeo Castellucci

Cosa può rendere più sopportabile l’ennesimo tampone? Avere la possibilità di farlo in un teatro, per il teatro. Così è stato per i quindici fortunati “eletti” per il percorso 5, condotto da Romeo Castellucci, di Fondamenta. Scopo principale del progetto promosso dal Teatro di Roma: tornare al piacere della formazione, darle rilievo e sostenerla in quanto basilare per ogni processo artistico.

Tra i fortunati ci sono anche io, la mattina del 1 aprile al Teatro India, in veste di uditrice, grazie a Dominio Pubblico e al progetto #Youngboard, impaziente di cominciare questa nuova avventura della durata, ahimè, di soli due giorni.

Non nego di aver scoperto l’opera del regista a passi lenti: per quanto cercassi di prepararmi a fondo, era quasi impossibile conoscerla tutta!

«Due giorni sono troppi per parlare e pochi per fare». Così esordisce appena entrati nella sala Oceano Indiano del Teatro India.

Effettivamente in questi due giorni si è parlato molto: l’abbandono, il rischio, la sospensione della realtà sono temi sui quali si è discusso tanto e che hanno aperto nuovi mondi nel mio immaginario teatrale. Confesso di aver avuto spesso l’impulso di alzarmi e agire sulla scena insieme agli altri (la nostalgia per i corsi di recitazione che facevo prima del lockdown è emersa con prepotenza) ma anche il solo ascoltare e osservare il lavoro degli altri è stato molto stimolante. Romeo – mi prendo la libertà di chiamarlo per nome vista la colloquialità con cui ha interagito con noi – ha proposto diversi esercizi ai partecipanti, ai quali è stato chiesto di creare una maschera, una breve partitura fisica, un costume e una natura morta.

È stato interessante il fatto che il momento delle presentazioni sia arrivato solo dopo il primo esercizio, quello della maschera; questo ha fatto sì che nessuno venisse identificato dietro quella che stava proponendo. Il distacco dalla sfera soggettiva e personale è infatti un punto cardine nel lavoro del regista. Un primo micro-shock l’ho avuto vedendo la proposta di uno dei ragazzi (che poi abbiamo scoperto chiamarsi Gioele ma che in quel momento era una sorta di entità a noi sconosciuta) che ha scelto di spogliarsi completamente e rimanere con addosso solo la maschera.

Devo dire che non è stata l’unica sorpresa, perché esercizio dopo esercizio emergevano personalità estremamente diverse e particolari e poter assistervi è stato un privilegio, vista la perenne impossibilità in questo momento di incontrare chiunque al di fuori della propria quotidianità.

L’argomento della nudità in scena ha poi portato tutti a diverse riflessioni: è un tasto molto delicato, facile sfociare nella sfera politica o pubblicitaria e fondamentale è togliere ogni traccia della soggettività ed essere trasparenti. Il corpo nudo in scena è tutt’altro che libero.

Qualcuno ad un certo punto ha chiesto se fosse ancora possibile portare dei simboli a teatro, vista la mancanza per lo spettatore di codici a cui riferirsi. Secondo Romeo non c’è niente da far capire al pubblico, e l’aspetto contemplativo dovrebbe contare più del resto; per questo lui crea cose “fredde”, che cioè non tentano affatto di spiegare qualcosa allo spettatore. L’ho trovata una visione molto umile, perché finora ho sempre pensato che gli spettacoli “complessi” esigessero un pubblico estremamente colto, incuranti del piacere dato dalla semplice contemplazione degli spettatori. Romeo nei suoi spettacoli fa un lavoro di profondo scavo nella materia trattata, lavorando sulle fonti delle fonti delle fonti per far emergere l’essenza della cosa.

Ad affiancarlo durante il percorso c’era Silvia Rampelli, attiva nella scena performativa, teorica e formativa e che fa vertere la sua ricerca sulla natura dell’atto. I suoi interventi sull’importanza dell’effettività in scena, sul lavoro di regia che sta proprio nel saper rendere concreto ed effettivo ciò che ci circonda, includendo lo spazio che ospita la nostra azione, sono stati estremamente interessanti sebbene difficili da spiegare e trasmettere, anche per chi come lei è abituato a muoversi in dimensioni simili.

Una volta arrivata la pausa pranzo avrei voluto conoscere meglio i partecipanti, visto che finora ne avevo conosciuto solo i nomi e ascoltato le presentazioni, ma la timidezza ha avuto la meglio e ho dovuto escogitare un altro modo per inserirmi. Il caffè si è rivelato l’arma vincente: il primo giorno abbiamo vissuto il dramma della macchinetta fuori uso e della mancanza di bar nelle vicinanze, perciò per il giorno dopo ho pensato di preparare un bel thermos da offrire agli altri, nella speranza di diventare una sorta di salvatrice della patria… Il piano è fallito miseramente. A quanto pare non ero stata l’unica ad avere quella brillante idea…

A parte gli scherzi, devo dire che sono stati due giorni pieni di nozioni e azioni, che credo siano state per tutti una sorta di boccata d’aria fresca dopo un lungo periodo di apnea. Incontrare e ascoltare Castellucci e Rampelli mi è stato utile per sfatare diverse convinzioni riguardanti il teatro, anche se il loro punto di vista è ovviamente personale e non pretende di essere esatto. In alcuni casi addirittura le loro concezioni teatrali divergevano, e questo ha reso ancora più stimolante l’esperienza.

Nonostante i miei tentativi di approccio con gli altri partecipanti non siano riusciti al meglio (ahimè, non cambio mai!) ho potuto comunque imparare molto da loro senza il bisogno di troppe parole.

L’unico rimpianto? Quello di non aver alzato la mano quando Silvia cercava volontari per un esercizio sull’azione e la sua relativa organizzazione temporale: ero quasi pronta a propormi quando è stato chiamato Attilio Scarpellini, che da giornalista e critico teatrale si è trasformato in performer. E poi in questi due giorni ho imparato che se non siamo pienamente convinti delle nostre azioni, è meglio non cimentarsi. Del resto, il bravo attore non va mai in scena senza pieno controllo di sé e consapevolezza in tutto ciò che fa. Come ci ha detto Castellucci: «Siamo qui perché amiamo il limite, non la libertà».

Claudia Raboni

Foto © Claudia Pajewski