#YOUNGBOARD: al Teatro Valle per la mostra Ronconi e Roma. Intervista a Roberta Carlotto e Sandro Piccioni

Articolo di Aurora Leone, Matteo Polimanti, Claudia Raboni

Ph Aurora Leone

Venerdì 30 aprile 2021. In un periodo di chiusura per il corpo e per la mente, Dominio Pubblico si concede uno “spazio di libertà”: una visita al Teatro Valle in occasione della mostra Ronconi e Roma promossa dal Teatro di Roma.
La prima parte della mostra, Gli esordi di Luca, ripercorre gli inizi dell’attività del Maestro attraverso le testimonianze visive e testuali dei suoi spettacoli al Valle.
Nella seconda parte, invece, emerge dal buio la videoinstallazione Lo sguardo di Luca realizzata dal duo artistico composto da 
Daniele Spanò e Luca Brinchi. Abbiamo avuto modo di incontrare virtualmente quest’ultimo alla fine della nostra spedizione.
Luca ci ha raccontato della paura iniziale nel dover rimaneggiare il materiale di scena di uno dei più grandi registi del nostro passato teatrale. L’idea è stata quella di dotare le fotografie di Marcello Norberth di tridimensionalità e di una maggiore spazialità, dando così origine a un’esperienza immersiva capace di restituire la vitalità e la maestosità degli spettacoli dal vivo del Maestro.  Andando inoltre ad accompagnare le immagini con le tracce audio delle battute degli attori che all’epoca portarono in scena gli spettacoli, tutto ci è sembrato ancora più vivo. Per noi che per ragioni anagrafiche non abbiamo mai potuto assistere ad uno spettacolo di Ronconi, è stata un’esperienza più unica che rara.


Nell’intervista che segue, Sandro Piccionicuratore della mostra, e Roberta Carlotto, direttrice del Centro Teatrale Santacristina, che con il suo Archivio Luca Ronconi ha contribuito alla realizzazione della mostra, approfondiscono l’attività artistica del Maestro. 

In questa mostra esponete il Ronconi degli esordi da una parte, e il Ronconi della maturità dall’altra. Come cambia lo sguardo del maestro nel passaggio da una fase all’altra della propria carriera artistica?

Sandro Piccioni: Non so se il secondo momento si possa chiamare della maturità. Sicuramente c’è una gran differenza fra il Ronconi romano e il Ronconi milanese, anche solo per le diverse scelte artistiche. Dovendo realizzare una mostra sull’attività di Ronconi a Roma, attraverso le foto di scena di Marcello Norberth, con il Teatro Valle come spazio espositivo, non potevamo che cominciare dagli esordi del maestro, avvenuti proprio in questo luogo, come attore ancor prima che come regista. Con Roberta Carlotto abbiamo selezionato il materiale proveniente dall’Archivio Luca Ronconi, al cui interno c’è un libro molto importante, “Prove di un’autobiografia”, che scandisce momento per momento una prima parte della carriera del maestro. In diversi punti il Maestro regala testimonianze squisitamente personali in relazione ai suoi spettacoli. Nei primi dieci anni in cui ha fatto l’attore, ad esempio, ha dichiarato di essersi sentito spesso a disagio.

Roberta Carlotto: Ha cominciato facendo l’Accademia d’Arte Drammatica, contro il volere della madre. L’ha frequentata per due anni, lasciando incompleto il percorso triennale. Ottenne fin dall’inizio un discreto successo come giovane attore, in particolar modo nella commedia, sia a teatro che in televisione. A un certo punto si è sentito inadatto, in particolare aveva la sensazione di vedersi mentre recitava, e questo lo disturbava profondamente.

SP: Corrado Pani mi ha raccontato che, quando erano nella stessa compagnia, non capiva mai benissimo le indicazioni del regista, ma capiva alla perfezione quelle di Luca, che invece erano precise, esatte. Forse è stato in quel momento che Luca ha iniziato a capire che la sua strada fosse la regia. 

RC: La sua prima regia La buona moglie di Goldoni fu un totale fallimento. Dopo dieci giorni di repliche, Luca e la sua compagnia furono costretti a chiudere per mancanza di pubblico. All’epoca nomi come Gian Maria Volonté, Carla Gravina o Ilaria Occhini non erano affatto conosciuti.

SP: Per Ronconi fu un duro colpo. Decise di allontanarsi dal teatro per un po’. Restò a casa, lesse molto e cercò di elaborare il tutto. Ci riuscì, e riprese la propria attività.

Nel periodo del teatro definito successivamente post-drammatico, Ronconi com’era visto dai propri “colleghi”, sia a livello nazionale che internazionale? Considerando anche il suo legame con la tradizione di prosa.

SP: Benissimo direi. Le sue erano regie più che dirompenti!

RC: Io credo che lui rispettasse molto la tradizione nella scelta dei testi, nel rapporto con gli attori, ma dal punto di vista della messinscena è stato un regista di rottura. Nel ‘75-‘77 diresse la Biennale Teatro a Venezia, e portò un suo spettacolo, Utopia, con diversi problemi irrisolti dal punto di vista del rapporto col pubblico. In quello stesso periodo chiamò a Venezia Grotowski, Barba, il Living Theatre, Bob Wilson, la Mnouchkine e altri. Insomma tutti i protagonisti della ricerca di quegli anni, ognuno con linguaggi diversi, ma con in comune la volontà di “uscire dal teatro”: una vera e propria rottura degli spazi. Quando Ronconi diventa poco dopo direttore dello Stabile di Torino, ritrova il palcoscenico, inteso in modo tradizionale, ma con un approccio che risentiva dell’esperienza passata di rottura e uscita dal teatro. E questo è evidente analizzando l’elaborazione dello spazio in ogni suo spettacolo.

Ph Aurora Leone

Qual era il rapporto fra Ronconi e i suoi attori?

SP: All’inizio credo che Luca abbia lavorato facendo l’assistente con Visconti. La perfezione incredibile degli spettacoli di Luca io credo che venga anche da lì. Poi, io credo che quando lui metteva in scena uno spettacolo, lo spettacolo era già fatto dentro di lui. Certe volte ho assistito a lui che diceva “Fai questa cosa” all’attore, saliva sul palcoscenico e la faceva, e stava all’attore farla uguale a come la faceva lui. Se sentite le interviste che Roberta ha fatto agli attori, che devono uscire a maggio su Rai 5, la Bacci dice che la lettura a tavolino con Luca Ronconi era un’esperienza mai vissuta con altri. 

RC: Intanto era un uomo che deve aver avuto una giovinezza forse anche infelice, ma comunque aveva letto tutto. Ad esempio ha sempre usato dei testi che non erano nella tradizione italiana, nei titoli abituali, andava alla ricerca di testi anche del barocco italiano, come Andreini che ha usato molte volte, che forse non era neanche mai andato in scena. Conosceva la letteratura e il teatro in un modo veramente impressionante, e con una memoria incredibile. Il suo lavoro a tavolino con gli attori partiva da una grandissima capacità di lettura dei testi e di interpretazione degli stessi. 

E questa pratica così ben scandita e definita non poteva risultare un po’ frustrante per gli attori?

RC: Nelle interviste, quasi sempre, ognuno di questi attori ha un racconto tra la meraviglia, l’interesse, la passione, la felicità di raggiungere un personaggio e un momento di crisi. E sul momento di crisi vedi delle situazioni in cui lasciano anche la scena, spesso la Guarnieri, la Nuti. Sono costruzioni di personaggi che non sono mai lineari, ci sono sempre dei momenti drammatici.

SP: Sentivo nell’intervista anche Massimo De Francovich, che si sentiva insoddisfatto di fronte a una battuta di un testo. Ronconi va su, la fa e De Francovich dice di essere impallidito, di essersi commosso. Aveva capito come la doveva fare. Perché lui indubbiamente in quei dieci anni era stato un bravissimo attore. Lo vado a trovare a Milano e stava mettendo in scena La vita è sogno. Alla fine delle prove dice a Massimo : “Massimo, voglio che questa la rifacciamo” e lo porta in una saletta di sopra, e mi dice “Vuoi venire?”, “Sì, andiamo”. Mi metto in fondo e Luca dice “La devi fare così” e la fa, ed era fantastico. Massimo tre secondi dopo la diceva perfettamente uguale a lui, con la stessa voce di Ronconi. 

L’astinenza da spettacoli che tutti noi stiamo soffrendo, causata dalla prolungata chiusura dei teatri, ha recentemente creato molta confusione riguardo le specificità dello spettacolo teatrale: si è dibattuto molto in particolare della possibilità del cosiddetto teatro in streaming e delle sue potenzialità. Il maestro, che ha declinato la propria arte anche nei mondi del cinema e della televisione, che risposta artistica avrebbe dato secondo voi al periodo di emergenza pandemica? Avrebbe atteso di tornare in scena o si sarebbe cimentato con lo spettacolo da remoto? Aggiungo che, ieri, vedendo l’edizione televisiva di Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, messo in scena proprio qui al Valle nel ‘96, ho visto Ronconi modificare pesantemente lo spettacolo per adattarlo al piccolo schermo… 

SP: È stato il regista televisivo però in quel caso. Non Ronconi, che infatti non la prese bene. Comunque lui era molto innamorato del cinema. Ad esempio, il Pasticciaccio iniziava con tutti gli attori, che erano una cinquantina, che stavano con gli ombrelli aperti sul proscenio, e appena lo spettacolo iniziava tutti quanti si dirigevano verso il fondo. Soltanto Ingravallo partiva dal fondo e fendendoli arrivava al centro. Non è una zoomata questa?
Quando studiava le scene con Margherita Palli, lui si metteva sopra: era come se guardasse tutto dall’alto. 

Ph Aurora Leone

RC: Pensava che le riprese video fossero da non fare in assoluto. Tant’è vero che quando ha fatto l’Orlando furioso in televisione gli attori sono rimasti gli stessi, ma la messinscena televisiva non assomiglia affatto a quella teatrale, che invece ha letteralmente rivoluzionato la scena di quegli anni. A teatro il pubblico era situato in scena, circondato da carrelli mobili che occupavano l’intera platea. Con l’Orlando possiamo dire che lo spettacolo fuoriuscì dal palcoscenico. Anche con Gli ultimi giorni dell’umanità era contrario nel farne le riprese e invece vennero fatte a Torino, dentro il grandissimo spazio della Fiat del Lingotto. Di nuovo il pubblico poteva scegliere quale scena andare a vedere durante lo spettacolo. Ronconi diceva che non si poteva farne una ripresa televisiva perché avrebbe costituito l’adozione di un solo punto di vista. Alla fine, sempre con tempi adesso inimmaginabili, abbiamo realizzato quattro riprese fatte da punti di vista differenti, e lui si è occupato del montaggio: il punto di vista era il suo.

 

Prima parlavamo dei ritmi produttivi, che erano meno frenetici rispetto ad oggi. Il Centro Teatrale Santacristina è stato, come Ronconi stesso lo ha definito in un’intervista, uno “spazio di libertà”. Oggi, per gli attori che escono dall’accademia, presi dal dover iniziare la carriera, il momento della formazione potrebbe passare in secondo piano. Com’è stata l’attività al Centro Teatrale in questi anni sotto questa prospettiva? Ci sarebbe bisogno di altre realtà come questa, magari anche all’interno della città?

RC: Il Centro Teatrale Santacristina si trova in una zona desolata in Umbria, quindi ha tutte le possibilità di lavorare con tempi e modi diversi da quelli cittadini, ma d’altro canto è difficile da raggiungere e la comunicazione all’esterno è complicata. Poi è una struttura ibrida: da una parte i laboratori teatrali che a volte diventano anche spettacoli e dall’altra il sito e la parte documentaria. Non ha un punto di riferimento statale riconosciuto, quindi è un’avventura tenerlo in piedi economicamente, pur avendo persone che lavorano quasi gratuitamente, attori che vengono ad insegnare senza un compenso paragonabile a quando vanno in scena. Inoltre gli allievi non pagano l’entrata, per dare a tutti la possibilità di partecipare. Questi elementi fanno sì che la parte economica sia difficile da gestire, ma lo possiamo fare solo grazie all’impegno di un gruppo numeroso. Questo periodo è stato molto più complicato a causa del Covid, abbiamo provato a risolvere pubblicando un libro al quale lavoravamo da due anni, facendo le interviste, la mostra, e poi stiamo lavorando per portare l’archivio di Perugia alla Biennale di Venezia.

La prima volta che avete conosciuto Ronconi o il ricordo di lui che avete più forte. 

RC: La prima volta che l’ho visto è stato andando a vedere l’Orlando. Il ricordo più forte che ho riguarda Prato, dove andavo per conto della televisione e dove ho cominciato a conoscerlo più da vicino, a vedere come lavorava,  a diventare sua amica. 

SP: Avevo 18 anni, ero in teatro ed ho visto Luca Ronconi e Paolo Radaelli. Forse cercavano un posto dove fare l’Orlando.