Al Teatro India per Chi ha ucciso mio padre: la nostra nuova missione

Articolo di Flavia De Muro e Debora Troiani

La sera di giovedì 4 novembre si respira un’aria speciale al Teatro India. La nuova squadra dei ragazzi di Dominio Pubblico, che hanno risposto all’open call 2021/22 #NOPRESENT, si riunisce per la prima volta per il primo appuntamento del percorso di guida alla visione previsto in collaborazione con il Teatro di Roma.

Ad inaugurarlo, lo spettacolo targato Deflorian/Tagliarini Chi ha ucciso mio padre. Ad alcuni di noi il nome della compagnia suona più che familiare: chi era venuto all’open day organizzato al Teatro Argentina lo scorso 20 ottobre, aveva poi avuto l’occasione di ballare insieme alla compagnia. O meglio: di vedere la loro ultima creazione E avremo ancora l’occasione di ballare insieme, liberamente ispirata al film Ginger e Fred di Fellini. Quella sera però non eravamo neanche la metà di quanti eravamo giovedì 4. 

 

 

Quel che facciamo fatica a memorizzare infatti non sono i nomi di Daria Deflorian e Antonio Tagliarini, registi dello spettacolo, ma i nostri! Siamo davvero tantissimi, e le presentazioni di gruppo decisamente non aiutano. Nella mezz’ora che anticipa l’inizio dello spettacolo, non facciamo altro che ricordarci a vicenda come ci chiamiamo, cosa facciamo nella vita, e quanto ci sentiamo #nopresent.

Poco importa, di tempo per conoscerci ne avremo sicuramente, l’importante è essere di nuovo tutti e tutte a teatro, curiosi e scalpitanti. E soprattutto di nuovo tutti appiccicati! La sala è completamente piena. Percepire rumorosamente i movimenti del vicino di posto è sicuramente un’esperienza di cui potevamo anche fare a meno, eppure ci ha ricordato che nella vita come in sala, in realtà, non siamo soli.

Ad essere solo in scena era invece l’attore Francesco Alberici, che per un’ora abbondante è riuscito a stregarci con i suoi silenzi improvvisi e le sue parole taglienti. Pur essendo solo dall’inizio alla fine, è stato infatti capace di parlare a ognuno di noi. Il personaggio a cui Alberici ha prestato corpo e voce è il protagonista dell’omonimo romanzo autobiografico, a cui lo spettacolo si ispira, scritto dal giovanissimo Édouard Louis: un uomo, e nei suoi ricordi un bambino, che ragiona sul suo rapporto col padre. Un padre assente, ma ingombrante nella sua assenza, palpabile sulla scena quasi vuota dove l’attore gli si rivolgeva direttamente, quasi fosse lì, con tono rabbioso. Senza pietà. Questo dialogo intenso, amputato dall’assenza di uno degli interlocutori, non è l’unico che ci ha direttamente coinvolti quella sera.

Dopo che gli applausi hanno travolto Alberici alla fine dello spettacolo, abbiamo incontrato lui e Daria  nel bar del Teatro, per condividere un momento di scambio, domande e impressioni, che ci ha regalato un prezioso scorcio su tutto il lavoro dietro le quinte. La Deflorian ci ha rivelato, ad esempio, come i primi giorni di creazione la compagnia non abbia nemmeno aperto il testo di Louis, per concentrarsi sull’esplorazione del rapporto con un’assenza importante nelle loro vite, con una persona con cui il dialogo era stato impossibile. Daria e Antonio sono quindi partiti dalla propria storia individuale per focalizzare in che modo, in che misura e quanto a fondo l’esperienza di questa assenza avesse inciso nella loro vita. Dal racconto individuale di Louis che incontra questa esplorazione del vissuto personale nasce, quindi, la messa in scena di un’assenza molto presente, che riesce a parlare a tutti i presenti.

È allora questo il centro focale di Chi ha ucciso mio padre? Forse. Sicuramente il testo è permeato da un forte risentimento, un astio incancellabile. E difatti, ascoltando le parole di Louis attraverso Alberici, l’abbiamo odiato anche noi, questo padre, per tutti i suoi innumerevoli difetti: la violenza, il rancore come unico sentimento che si può provare verso la vita, la rassegnazione, la difficoltà di accettare i propri figli e il loro modo d’essere.

 

Foto di Andrea Pizzalis

A metà spettacolo però, le cose cambiano. Tutto assume un’angolazione diversa, lasciandoci tutti spiazzati. La rabbia si sposta mentre lo sguardo di Louis si allarga oltre la propria casa. Improvvisamente la prospettiva è un’altra: non più quella soggettiva di un bambino che ce l’ha con il padre, quanto piuttosto quella di un uomo adulto, di un cittadino che scopre nella politica e nella società attuali delle colpe gravissime. Arriva il momento di fare i nomi: j’accuse. Come Louis, anche lo spettatore è costretto a reindirizzare la propria rabbia: non più il padre, ma il giudizio degli altri sul padre; non il padre, ma i Sarkozy e gli Hollande di turno che lo tagliano fuori da ogni possibilità di accedere ad una vita migliore o, semplicemente, dignitosa. 

Ogni politico o politicante che ha abusato dei suoi poteri a discapito della popolazione più povera viene citato, giudicato colpevole e personalmente responsabile, senza mezzi termini. Allora lo spettacolo ci ha scaldati, ci ha fatto arrabbiare. Perché in realtà siamo tutti un po’ colpevoli. Colpevoli di essere stati in silenzio troppo a lungo e di non aver reagito e lottato contro interventi che considerano cure mediche accessibili e diritti dei lavoratori come dei diritti accessori sui quali si può soprassedere, senza conseguenze sulla vita di persone in carne e ossa. Il testo di Louis, con la sua intensità, ci ricorda questi effetti collaterali di azioni di politici resi miopi dalla loro posizione nella società. I provvedimenti riguardanti la disabilità, ad esempio, che ancora oggi e anche nel nostro paese risultano paradossali, sono nella narrazione di Louis mirati esclusivamente al risparmio. La decisione sulla diminuzione o la totale cancellazione di sostegni agli invalidi viene presa da persone a cui la questione non tange. Per chi subisce la legge è questione di vita o di morte. Ci viene in mente, in questo caso, la storia di una giovane donna polacca a cui non hanno praticato l’aborto causandone la morte; ma bisognerebbe scrivere un intero altro articolo a riguardo.

Torniamo allo spettacolo: un compendio di emozioni. Abbiamo sofferto, ci siamo commossi di fronte alla tenerezza dei gesti e delle parole di Alberici e infine ci siamo infuriati. Un padre è stato ucciso dai politici, ecco chi è stato. Eppure questo non è uno spettacolo politico tout court. È uno spettacolo su una relazione mancata, su un personaggio che da bidimensionale si fa tri-, quadri-, pentadimensionale. Un padre che cambia solo perché cambia lo sguardo di Louis. Man mano che mette radici in un mondo che sembra non lasciare possibilità, il figlio cambia sguardo e sembra convincersi di una piccola verità, che abbiamo anche riascoltato dalle labbra di una Deflorian commossa a fine serata, poco prima di salutarci: “sono i figli a cambiare i padri”. Sembra un po’ la nostra missione.