Drag Me Up Festival 2021- Ma il trucco dov’è? Dominio Pubblico incontra Holidolores e le Karma B

Articolo di Matteo Polimanti
con il contributo della redazione Under 25 di Dominio Pubblico

E se vi dicessimo che abbiamo scoperto un Festival tutto truccato?! Fra rossetti, blush e fondotinta siamo entrati nell’universo di Drag Me Up.

Si è conclusa lunedì sera la seconda edizione #nostereotypes del Queer Art Festival di Ondadurto Teatro, con la direzione artistica delle Karma B e Holidolores (clicca qui per il video #nostereotypes del Festival).
Un’edizione tutta dal vivo, dopo la prima interamente in streaming, che dal 25 novembre si è diffusa in diversi spazi a Roma e che ha permesso alla giovane direzione artistica Under 25 di Dominio Pubblico di conoscere e curiosare all’interno del mondo drag e della queer art: uno spazio di ricerca e di confronto, carico di potenzialità e di significato, fra artisti, artiste, artistu e il pubblico.

Negli ultimi giorni di Festival – dopo aver assistito non solo agli spettacoli in programma come Nina’s Radio Night delle Nina’s Drag Queens o MDLSX dei Motus, ma anche ai talk che ci hanno fatto conoscere diverse realtà queer in Italia e nel mondo – circondati da paillettes e tacchi a spillo, ci è sorta in mente una domanda: “Qual è il trucco per essere drag?”

Lo abbiamo chiesto alle dirette interessate: alle Karma BMauro Leonardi e Carmelo Pappalardo – e a Margò Paciotti in arte Holidolores, prima che andassero in scena al Centrale Preneste Teatro con i loro spettacoli Gayround The World e Blue Moon.

Mauro e Carmelo: Nonostante la drag queen sia composta al 90% di trucco e di un buon super alcolico per il restante 10%, in realtà non c’è un trucco. Ci sono tanti modi di essere drag, tanti quante sono le artiste e gli artisti che si cimentano. Amiamo sempre citare Maurits Cornelis Escher, che diceva: «Il mio lavoro è un gioco, un gioco molto serio».

Margò: Forse, se c’è, il trucco per essere drag è riuscire a guardare innanzitutto sé stessi e poi gli altri con molta leggerezza, significa entrare nei panni degli altri e immedesimarsi in maniera tanto seria quanto ironica, per comunicare alle persone quel che si prova. Richiede molta fatica: fisica innanzitutto, perché ricostruisci completamente il tuo volto e il tuo corpo. Fra corsetti, stringivita, mutandine contenitive, calze stringenti e panciere, tacchi a spillo, e così via. Devi imparare a sentirti a tuo agio con un corpo che non è il tuo, che hai ricostruito interamente. A livello interpretativo entrare in drag vuol dire invece prendere qualcosa di sé, anche di molto intimo e personale, e trasformarlo in qualcos’altro, che possa arrivare al pubblico.

Inaugurazione della seconda edizione del festival all’Ellington Club

E come si tramanda questo «gioco molto serio»?

Mauro: E chi ha detto che si tramanda?! Vi pare che ce ne andiamo in giro a rivelare i nostri segreti?!

Carmelo: C’è la tradizione americana di essere madri di altre drag, che anche in Italia sta pian piano cominciando a diffondersi. Delle drag prendono sotto la propria ala protettiva altre drag, insegnando i trucchi e i segreti del mestiere. Magari un consiglio, un rimprovero quando serve, e così via. Non esiste una scuola drag, esistono l’esperienza fatta sul campo e le relazioni che si creano fra le persone, come quella nata fra noi e Margò.

Come nasce Drag Me Up Festival?

Margò: In un primo momento noi di Ondadurto Teatro ci siamo come testati a distanza con Mauro e Carmelo, che già collaboravano con noi come costumisti. Nel frattempo io ho iniziato un percorso di transizione, e insieme a Lorenzo Pasquali, mio marito, ho avvertito la necessità di aprire uno spazio di racconto all’interno del mondo queer a Roma e nel resto d’Italia: uno spazio in cui le persone potessero rendersi visibili e raccontarsi, uno spazio di libertà, visibilità e confronto, anche interno alla comunità stessa che si racconta. Anzi in certi momenti il confronto interno alla comunità LGBTQIA+ è stato proprio quel che ho trovato più stimolante.

Mauro: Noi rappresentiamo una bandiera, che la comunità stessa lo voglia o meno. Molto spesso per arrivare all’esterno c’è bisogno di un faro che illumini tutto. Molti definiscono le drag come il dito medio puntato in faccia alla società. Abbiamo il compito di spiazzare, di levare un grido e chiamare a noi l’attenzione.

Carmelo: Poi ovviamente bisogna anche avere delle cose da dire, altrimenti la provocazione è fine a sé stessa.

Vi siete mai sentite giudicate dal pubblico?

Mauro e Carmelo: Il pubblico non si giudica mai. Per il solo fatto di essere venuto a vederti merita rispetto. Anche quando ci siamo trovati davanti a un pubblico casuale, che non sapeva nulla dei nostri spettacoli, abbiamo sempre trovato una grande disponibilità a capire. Questo perché noi andiamo sempre pronti a spiegare. C’è una gran differenza fra la necessità di spiegare, e l’obbligo di giustificarsi. Spiegare sempre, giustificarsi mai.

Margò: Sottoscrivo in pieno. L’artista deve sempre avere molto rispetto per il pubblico. Io mi son sempre posta con molta serenità e umiltà. Non ho mai pensato: “Oddio mi stanno giudicando.”. Quando qualcosa non funziona in scena, non è mai il pubblico che sbaglia, ma l’artista che deve trovare un’altra via, un linguaggio più universale e immediato.

Dettagli da Blue Moon

Ci parlate dei vostri spettacoli?

Margò: Blue Moon nasce da un’esigenza tutta personale. Avevo la necessità di dire ad alta voce delle cose, di farmi delle domande e di conseguenza farle al pubblico. Andando avanti nel lavoro ho realizzato che una storia intima può prendere un respiro universale, e coinvolgere chiunque. Non è per niente facile: parlando del proprio passato si entra in delle stanze la cui soglia è difficile da (ri)attraversare. È un po’ come andare in analisi, e bisogna essere in grado di mantenere un distacco molto lucido pur essendo coinvolti da quel che si sta raccontando.

 

 

 

 

Mauro e Carmelo: Gayround the world è invece una riflessione sulla condizione dei diritti civili in Italia e nel resto del mondo. Siamo partiti dalla lettura del libro Global Gay di Frédéric Martel, che partiva da una domanda: “Esiste un modo unico, comune a tutto il mondo, di essere gay, di vivere la vita della comunità LGBTQIA+?”. Noi ci siamo posti la stessa domanda a distanza di circa nove anni, e siamo andati in giro per il mondo per scoprirlo. Siamo stati quasi in tutti i posti di cui parliamo nello spettacolo, e abbiamo cercato di raccontare ogni situazione a modo nostro, con il nostro linguaggio.

Grazie mille! Vorremmo continuare ma mi sa che poi vi toglieremmo troppo tempo…

Per carità! Dobbiamo andare a prepararci!

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