I pupi e l’arte di morire

Un vecchio, seduto di fronte a un impasto di zucchero la notte del due novembre. Tra sonno e memorie, si attende che lieviti. Un due tre quattro, si piegano uno alla volta i lembi di una tovaglia che protegge il futuro pupo. Un due tre quattro, come un gesto rituale che scaccia il sonno – o l’attesa. Un due tre quattro apparizioni: tre ragazze e una bambola, appaiono dal buio alle spalle del vecchio. La ragazza al centro ha un paio di campanelle in mano, e sopra la testa del vecchio “din din” richiama i ricordi in superficie, al bordo degli occhi (“meraviglie chiantate negli occhi”).

Di qui inizia “Pupo di Zucchero”, racconto di una notte di ricordi, di solitudini, tipiche di chi resta ultimo ad andare, riempite solo dal sonno e dai sogni: il mondo di ieri ormai è andato in altro luogo – quasi sicuramente solo sottoterra.

 

Un pupo di formazione.

non cresce, m’aggio scordato qualcosa?
Il vecchio in Pupo di zucchero, Emma Dante

Impastare è un’azione che richiede tempo e pazienza, lasciar lievitare, lasciar crescere ancora di più: e durante tutto questo tempo che deve passare, e certamente passerà, il vecchio ha l’occasione di perdersi con la testa nel racconto, nel racconto di sé, della sua storia fin lì, dalla sua nascita, crescita – o lievitazione.

Così la scena inizia ad affollarsi di ricordi, di nomi, dei corpi fatui dei parenti evocati dalla memoria. Il vecchio ripercorre la sua storia, gli incontri e gli eventi che lo hanno formato, ciò che ha amato del suo passato e ciò che da sempre ha rifiutato: da un lato l’affetto per la madre in attesa del ritorno del padre, la vita delle sue tre sorelle uccise troppo presto da una malattia, l’arrivo di Pasqualino e Pedro, e dall’altro lato il rapporto a mazzate mai visto come amore (“chisto nunn’è amore”) tra lo zio Antonio e la zia Rita.

E nel ricordare la casa, o meglio, nel riallestirla con la stupenda cura delle scene (stupenda perché essenziale e funzionale senza essere distrazione, scusa o specchietto per le allodole) di “Pupo di Zucchero”, il vecchio ha l’occasione di ribadire legami e rotture con ognuno di questi personaggi, che di fondo sono tutti parte ormai non solo della sua storia, ma della sua personalità presente. Ribadisce il proprio carattere, quando concretizza dei confini tra sé, il proprio corpo e lo zio Antonio alla fine di uno degli ultimi ricordi delle violenze che lo zio compie sulla zia. Afferma il proprio carattere quando, sedendosi al tavolo al posto di Pedro, alla storia tra Antonio e Rita preferisce quella tra Viola e Pedro, un amore fatto sì di carne ma anche di parola: Pedro che è felice di poter raccontare di sé della propria vita, e Viola che gli sorride divertita mentre lo ascolta adorante.

Sembra davvero d’essere a casa di una famiglia allargata, il palco acquista una tridimensionalità narrativa che funziona benissimo: ogni spazio arredato con accenni è occupato da personaggi che interagiscono tra loro e che senza parlare contribuiscono al racconto della vita in casa. Sembrava davvero di essere lì, e allora in un impeto di emozioni perché non lasciarsi andare in un ballo coi ricordi?

Qui un plauso alle luci, oltre che alla coreografia: iniziano le danze, e mentre ognuno dei ricordi balla, la luce si fa blu, sempre più fatua (forse non è successo davvero, forse è davvero solo una costruzione della mente del vecchio), la musica incalza, la scena s’affolla, ma dopo che Pasqualino ha preso il centro della scena, il ricordo diventa insostenibile e il vecchio si perde in uno degli spasmi che lo colgono a più riprese durante il testo.

La festa finisce, i ricordi svaniscono nelle quinte e a terra resta solo polvere. La luce torna bianca. Il tempo, la realtà sembrano riprendere il controllo della situazione. Eppure il vecchio non l’accetta, rincorre nel buio le ombre dei suoi cari e trova una catena. La tira a sé, cercando di far tornare tutti indietro, cercando di non lasciarli andare.

Ma il tempo è già passato e se li è portati, la catena a volerla tirare sarebbe infinita, perché non ha nessuno dall’altro lato che la tenga o che vi sia legato. Possiamo quanto vogliamo provare a tirare a noi i ricordi. La catena sarebbe infinita. Il tempo no. Il tempo costa. E quanto tempo, cioè quanta vita, costa il lasciarci ammaliare dal ricordo? “Nun t’affaccia’ si sient’a voce mia” cantano come sirene i suoi cari in una scena.

La catena alla fine quasi si strappa al nulla e il vecchio cade a terra per il contraccolpo: inizia (o torna) a fare i conti con la perdita, con la realtà, con la morte.

Anche i suoni, i silenzi, sono stati molto ben curati: qui un esempio: dopo la scena del ballo, dopo il caos dei suoni e dei corpi, dopo la folla, la compagnia assordante per nascondere la sua natura fittizia, di invenzione: il silenzio. Il vuoto. E in questo silenzio d’assenza, il tonfo, di legno, del tavolo su cui c’è il pupo ancora da lavorare. La realtà è tornata bussando un colpo secco sul legno del palco.

 

 Lo zucchero o l’unicità di un carattere nel suo contesto.

Il vecchio va a prendere “lo zucchero di Palermo”, lasciando il pupo di zucchero sul tavolo, non ancora pronto e un po’ “acerbo”, e tutti i suoi cari affollano la stanza, ognuno, a sua insaputa, partecipa all’impasto e lo conclude, tranne che per lo zucchero che, appunto, ancora manca.

Qui forse una chiave di lettura del testo acquisisce ancora più chiarezza: qui la lingua napoletana usata principalmente, in scena, finisce in secondo piano rispetto al testo: lo zucchero, ingrediente elemento evidentemente distintivo nella formazione di questo pupo di zucchero, come d’altra parte il contesto (anche familiare) lo è nella formazione dell’individuo, deve essere di Palermo; e lungi dal voler fare biografia di chi scrive, Emma Dante è autrice siciliana, e questa coincidenza non è da sottovalutare. E allora ci si chiede, forse, chi dei due sia il pupo di zucchero: l’impasto, o il vecchio?

 L’arte di morire

Eri stato avvertito (di dover morire, ndr). (…) Eri condannato, bisognava pensarci sin dal primo giorno, cinque minuti tutti i giorni. (…) è così che ci si allena (a morire, ndr).”
Regina Margherita in Il re muore di Eugene Ionesco.

Realizzato il pupo di zucchero grazie all’aiuto dei propri cari e allo zucchero di Palermo – non poteva essere altrimenti che così -, arriva il momento di far visita al cimitero. Qui ancora un plauso alla cura essenziale ma potente e funzionale della scena: il cimitero è, al tempo stesso, croce e loculi, immagine (o auspicio) e terra, in cui riporre i propri cari o i propri ricordi, è una croce divisa in due che si riunisce come un cancello nell’atto di chiudersi, ,  come ha osservato Marco Corte (della squadra di Dominio Pubblico) durante l’incontro con la compagnia.

I ricordi tornano in scena, danzano un’ultima volta con loro stessi, si dicono addio. La coscienza saluta il corpo. Il vecchio saluta il proprio pupo e omaggia gli altri. Riconosce se stesso e (quindi) gli altri (e viceversa).

Chiama i ricordi col loro nome, volta la carta e finisce in gloria”
Volta la carta, Fabrizio de André, Rimini, 1974

In questa croce cimitero tutti i ricordi, le vite, i corpi tornano al loro posto. Ogni pupo ha il suo loculo. Ogni corpo torna corpo. Ogni oggetto, oggetto. Il rituale è compiuto, la trama della vita riassunta, e di questa tessitura il vecchio s’è vestito per guardare con gli occhi la morte, o meglio la polvere che resta al suo passaggio, all’ombra degli ultimi lumini.

Forse è in questa preparazione, durata tutto l’arco dello spettacolo, il senso (uno dei sensi possibili) del testo di Emma Dante, tratto liberamente dai “cunti” di Basile, forse è questo il dono dei morti: la consapevolezza della morte, e dunque, di riflesso, la consapevolezza della vita. Imparare a morire, per imparare a vivere. E alla compagnia degli attori, che vivono e rivivono ogni replica questo percorso e rito della preparazione alla morte, verrebbe da chiedere: avete imparato, si può imparare a morire?

In un mondo che come disse Hillman non sa più morire, che si interessa più a distrarsi dai problemi piuttosto che affrontarli, intrattenersi al di qua della morte e quindi al di qua della vita, sempre mediata da uno schermo (schermo da intendersi anche come scudo nell’etimo, se si vuol giocare coi significanti), un testo come quello che ci porta Emma Dante è testo raro e fondamentale.

Pietro Ferrari – Redazione U25