La dodicesima notte

Ph. Luca Del Pia

Per leggere l’intervista fatta al regista Giovanni Ortoleva e alla compagnia,
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La dodicesima notte

Un’isola fantastica nel bel mezzo dell’oscurità pervasiva. Un luogo remoto e sconosciuto, in cui servi e aristocratici vivono i loro rispettivi ruoli nell’incommensurabilità di una gerarchia rappresentata da uno scenario imponente e surreale. Un fascino che ci porta a tu per tu con la visione onirica di una terra misteriosa nella quale prende avvio una narrazione corale e travolgente, in cui illusione e desiderio approdano e danno vita ad un movimento che infrange il confine tra virtù ostentate e sentimenti reconditi.

Ph. Flavia De Muro

All’interno del palco, la presenza di una gigantesca struttura a gradoni sorregge il gioco folle tra ascesa e subordinazione all’interno del quale ogni personaggio, caratterizzato da un proprio status sociale iniziale, convive con una morbosità intrinseca e dilagante che domina l’isola dell’Illiria e del delirium. Lo spettacolo – tratto dall’opera di William Shakespeare – diretto dal regista fiorentino Giovanni Ortoleva “La dodicesima notte (o quello che volete)” (andato in scena al Teatro India di Roma dal 19 al 24 marzo), racconta il divenire di una malattia d’amore destinata a tramutarsi in parossismo, l’insorgere del desiderio impellente di scalare le altezze sovrastanti della mitica isola e di essere accolti nel regno dell’apoteosi erotica e morale. I protagonisti si muovono ininterrottamente lungo i gradoni della scenografia, quasi a simboleggiare un sistema la cui vitalità è in perenne mutamento, in cui l’azione sconsiderata esercitata da ogni singolo elemento in gioco tenta di esasperare lo status quo spacciato per ordine e immutabilità. Ancora una volta è la fantasia a disgregare l’assetto precostituito e a condurre il processo di svelamento che ridimensiona la percezione del reale. L’enfasi è posta su personalità profonde e al contempo controverse come Viola/Cesario (personaggio la prima e suo travestimento il secondo, interpretati da Alessandro Bandini) e Olivia (interpretata da Anna Manella), quest’ultima inizialmente incline a conservare una dignità giustificata dal proprio rango, a dispetto di una profusione dei sentimenti che ne minaccerebbe l’integrità. L’incontro con Viola, travestita da Cesario, provoca in Olivia una reazione inaspettata ed estrema, immettendo nella staticità di quella trama sociale un sintomo febbrile, uno slancio di passione che degenererà in follia amorosa. L’ossessione travalica la logica della distanza ed esplode in una sorta di delirio collettivo. Sfugge la consapevolezza delle conseguenze, di cosa significhi realmente voler ascendere e appaiarsi a chi guarda il mondo da altezze differenti, laddove si è circondati da enormi cherubini. Il desiderio, in tutte le sue più iperboliche manifestazioni, oltrepassa ogni dicotomia, ogni vincolo di ceto – e lo stesso Malvolio (Michelangelo Dalisi), servo della contessa Olivia, è allettato dall’idea di condividere quel potere rappresentato dalla sua padrona, piuttosto che ricambiarne il presunto amore.  

Ph. Flavia De Muro

Qui il romanticismo nella sua concezione più elevata assume i contorni di un’incontenibile e sfrenata lussuria, alla quale ogni personaggio partecipa. I fautori di una razionalità apparentemente rigorosa, anch’essi sedotti da un’utopia ammaliante e contagiosa, tentano di sfidare l’assurdità di quella costruzione stratificata. Ingenuità e impotenza di fronte alle sempre più palesi contraddizioni rivelano le vulnerabilità dei nostri personaggi, in primis quelle dell’ignaro Malvolio. C’è chi, tuttavia, riduce con l’aiuto dell’astuzia la crescente complessità dei fatti a pura farsa: i nobili, con la complicità dei loro servitori, cercano intrattenimento facendosi scherno della pazzia e della credulità altrui. Simbolicamente è il buffone, Feste, (interpretato da Francesca Osso), a suggerirci uno sguardo alternativo attraverso il quale questo “male endemico” che affligge l’esistenza comune può essere, con un pizzico di immaginazione, rimodellato a teatro della vita dove il non sense legittima lo scherzo. 

La smania di godere, in questa storia, è una malattia a tutti gli effetti. Emerge dal profondo delle nostre inconsapevolezze, come in una notte in cui la rappresentazione disinibita delle più intime fantasie, senza rendercene conto, prende improvvisamente il sopravvento. Al pari di una metastasi, questa forza scatenata si propaga laddove svetta un ideale di perfezione sfoggiato anche da chi, per ironia della sorte, la subisce come tanti altri.

Massimo Fabbri, 27/03/2024

Ph. Flavia De Muro