#ShortTheatre2021: oltre le parole, un corpo e una voce

Articolo di Alice Bazzichelli, Camille Mormino e Matteo Polimanti

The Voice, This Time: la sedicesima edizione di Short Theatre ha affrontato di petto alcune delle criticità del mondo in cui viviamo, decontestualizzandole e ricomponendole in nuove forme per lasciar intravedere una molteplicità di realtà possibili, di esperienze altre, di voci a cui dare ascolto. Come quella dei Madalena Reversa, ad esempio, il cui spettacolo tenta di far riflettere sull’attuale emergenza ambientale attraverso un nuovo strumento, quello poetico. Clicca qui per l’articolo dedicato.

Da La Pelanda al centro culturale WEGIL, passando per il Teatro Argentina e il Teatro India, i luoghi del Festival si sono quest’anno rivelati una zona franca dove  ognuno/a ha potuto esprimere il proprio linguaggio, creando un dialogo vivo  tra chi ha qualcosa da dire e chi voglia di ascoltarla.

Per farlo è stato ripensato il concetto stesso di linguaggio, oltre la rigida verbosità, per raggiungere la pancia del pubblico attraverso la manipolazione fluida dei corpi, la scomposizione dei suoni e dei luoghi in cui questi si muovono. Oltre la mera parola.
Il corpo è ripetutamente stato il massimo medium espressivo, che nella sua forma mutevole trascende i suoi tratti umani, oltrepassando il genere, prescindendo dalla sua bellezza o bruttezza, ruolo sociale e provenienza: gli artisti sono così liberi di trasformarsi, rompere i preconcetti e parlare con la Voce di Short. 

 

 

La prima edizione di CRATERE, progetto di riappropriazione degli spazi della città di Roma installato per tre giorni all’interno del palazzo storico di Trastevere, storica sede dell’organizzazione fascista della Gioventù Italiana del Littorio nuovamente ristrutturato come centro culturale WEGIL, ci ha subito catapultate nel vivo del Festival.

La performance inaugurale Chasing the Phantoms ha mandato un messaggio fortissimo: Sofia Jernberg, cantante sperimentale svedese di origine etiope, affacciata sul balcone dell’edificio, circondata da aquile a forma di M, canta. Lì dove un tempo si ascoltavano parole cariche di odio, si esprime oggi con una voce celeste, quasi aliena, questa donna potente, nera, che parla alla città. Ciò che dice non ci è comprensibile, ma non importa: sono suoni molto istintivi a trasmetterci forza e speranza. Sia il suo corpo che la sua voce hanno espresso un messaggio di una potenza letteralmente indicibile. Tutti gli occhi erano rivolti a lei. 

Con la performance di Allison Grimaldi-Donahue, A Mouth Covering a Mouth: The Women of Gruppo 63, assistiamo a una lettura poetico-performativa che racconta la ricerca, da parte della poetessa, del proprio movimento, della propria voce. In questa tecnica americana di spoken poetry, Allison cerca, assume e racconta la sua lotta per riuscire a esprimersi, lacerata dai propri conflitti interiori. Ci ha fatto pensare alla difficoltà che tanti stranieri vivono nella propria quotidianità, del non sapere come parlare. Come esprimersi, se le parole non sono quelle giuste?

 

CRATERE, che ormai si pone come reale piattaforma di espressione al femminile, prosegue con la performance [é-cri-tures] : Alma di Loreto Martínez Troncoso: ascoltare e sentire, al di là della comprensione letterale del testo. L’artista ci trasmette il suo fastidio, sia nell’essere vista che nell’osservare lo spettatore. Ci tocca con il corpo, con gli occhi curiosi. Non è distaccata ma cosciente della nostra presenza, e vive, con tutta sé stessa, le sue volontà.  

Con un taglio nettamente provocatorio e femminista, a La Pelanda anche la voce di Cherish Menzo cerca di esprimersi attraverso il proprio corpo e le musiche a tutto volume dello spettacolo Jezebel. La performer olandese di origini surinamesi mischia danza, canto, e video ispirandosi alle “video vixen” degli anni novanta / inizio duemila, dove modelle iper-sessualizzate, le “jezebel”, vengono trattate come meri oggetti del desiderio.
Cherish Menzo riesce ad appropriarsi del linguaggio fisico delle jezebel e si ribella contro l’oggettivazione del proprio corpo, che diventa qualcosa di indefinito che accelera, decelera, scoppia, rimbalza, si accascia, si rimpicciolisce e si gonfia. Tutti gli sguardi si offrono a lei con grande ammirazione, ammaliati dalla maestosità con cui rielabora ed esalta le musiche afro-electro-hop su cui si muove senza sosta.
Si è trattato di una performance completamente trasfigurante. È inizialmente riuscita a trasmettere anche lei la propria difficoltà di esprimersi, essendo solo considerata come donna-oggetto, per poi riuscire a riprendere possesso del suo corpo, uscendo dagli schemi della cultura hip-hop. Libera di essere sé stessa, non rispondendo più a niente e nessuno. 

 

Come lei anche Nadia Beaugré, che con la performance Quartiers Libres provoca gli spettatori, gli uomini in particolar modo, invitandoli a guardare ripetute volte il proprio seno, le proprie gambe. Pochi minuti più tardi quello sguardo verrà condannato, o ancora meglio ridicolizzato, offrendo l’artista ivoriana un’immagine marcatamente stereotipata ed eccessiva di sessualità dei corpi. Si esce dallo spazio scenico, e mentre ci si confronta a vicenda, mille domande affollano la mente. Come guardo una persona quando la desidero? Quel primo sguardo comporta un giudizio su di lei?

 

In un’altra sala de La Pelanda va in scena EMILIO. Sulle orme di “Emilio o sull’educazione” del filosofo Jean-Jacques Rousseau (1762), la performance di Alexia Sarantopoulou catapulta il personaggio in uno stato di natura pre-sociale, in cui non vigono regole se non quella dell’autodeterminazione. La ragazza in scena è seduta sul palco, senza vestiti, contornata da ampolle e contenitori pieni di frutta, e dà proprio l’impressione di essere un giovane fanciullo. Lo stesso si muove seguendo il proprio istinto curioso e vizioso, creando e distruggendo nel tentativo di darsi una forma: inventa, sporca, mangia, trasforma il paesaggio a suo piacimento, ci si immerge e lo reinventa. In questo gioco fluido, ancora una volta allo spettatore viene chiesto di dimenticarsi dei limiti della forma umana per concentrarsi sul contenuto del messaggio che corpo, suoni e luci stanno esprimendo: l’individuo è libero, per natura, di mutare e riaffermarsi in nuove forme. 

Il contatto visivo profondo e magnetico che poche volte concede Emilio durante la performance è cruciale momento di dialogo con il pubblico, e immediatamente nasce una complicità tra tutti noi, perché invitati a comprenderlo. I corpi sono in ascolto reciproco. Come anche quelli di ff_fortissimo di Giuseppe Vincent Giampino. I personaggi neri incappucciati si muovono in uno spazio ridotto all’estremo, vagando in una danza iper-rallentata scandita solo da suoni elettronici e suole di gomma che graffiano il pavimento. Le figure in scena usano il loro corpo come linguaggio stesso di affermazione ed interazione nello spazio, risultando pesantissimi e leggerissimi agli occhi di chi li osserva, costringendo a svincolarsi da ogni idea schematica e preconcettuale di spazio e tempo.

 

 

 

 

Short Theatre e le varie presenze che lo hanno animato ci hanno permesso di metterci in discussione. Le sue Voci sono arrivate chiare a porci delle domande, per capire i nostri limiti e le nostre negligenze rispetto alla comprensione del mondo che ci circonda. Cambiando il linguaggio, ci ha ricordato che la nostra esperienza di vita è una in mezzo a tante, e che il nostro mondo è semplicemente una raccolta di esperienze descritte come appartenenti ad una presunta normalità. Ci ha spinto ad ampliare i nostri punti di vista stimolando la nostra capacità empatica. La questione del genere, della rappresentazione delle diverse realtà che costituiscono il nostro mondo e della difficoltà di esprimersi davanti a chi non ci presta ascolto, sono stati fattori determinanti la nostra partecipazione al Festival. L’ultima immagine nella quale ci imbattiamo sintetizza perfettamente tutto ciò: durante la performance-concerto Nehanda dell’artista-attivista Nora Chipaumire, su un lato dei palchetti del Teatro Argentina si staglia imponente un’ombra grande quanto tutta la sala. È quella del percussionista in scena, intento a suonare energicamente i propri strumenti. In scena il buio quasi impedisce di vedere chiaramente la sua figura, e allora viene naturale volgere lo sguardo a quell’ombra che ci sovrasta tutti, ammutolendoci e prendendo finalmente la parola, stanca di rimanere in silenzio. Questo per noi è stato Short Theatre 2021.