Amleto

Amleto – Michele Sinisi

Si entra piano nella piccola sala del Teatro Argot, avvolta nel nero. Le fanno da contrasto le poche cose illuminate: delle sedie bianche, un piccolo vaso con fiori colorati, uno stereo, un uomo vestito in abiti cinquecenteschi. Il pubblico si sistema e Amleto è con il pubblico, oggi, ma è anche nei suoi panni, letteralmente, e sicuramente nei suoi pensieri, in un sottile equilibrio piacevole da osservare. Le porte della sala si chiudono, gli occhi del pubblico sono tutti su Amleto e lui restituisce lo sguardo a chi lo osserva. Sa che sono lì, ma c’è qualcosa di più importante di cui occuparsi e allora inizia: mette una traccia sullo stereo, si alza, viene in proscenio e inizia a tentare. Piccoli tentativi col corpo, ripetizioni di gesti accennati, sembra stia ripercorrendo una partitura che conosce, una storia che conosce ma che ha bisogno di far tornare. Sinisi gestisce e propone un corpo scenico degno di nota, un corpo consapevole,  che con poche accennate note crea già lo spettacolo: non c’è alcuna fretta, in quel silenzio, di arrivare alla parola. Lo spettatore osserva, rapito, ed è con l’attore e con quello che ha cominciato a raccontare. 

Il suo Amleto è “pazzo” sì, ma di una pazzia lucida, amica al dolore. Il dolore, questo sentimento tanto scomodo quanto abituale. Per questo Amleto è estremamente umano ed è nostro fratello. Il suo è un dolore incontrollato e incontrollabile, che zampilla come fiotti d’acqua in una fontana mezza rotta, figlio di una giustizia eclatante, troppo eclatante per scenderci a patti. 

Amleto è solo nella stanza della sua mente e ripercorre ogni sera la sua storia, da diciotto anni. Perché quello di ieri era un debutto sì, ma non di certo una prima. Sinisi infatti porta in giro il suo spettacolo dal 2005 e Dominio Pubblico l’ha ospitato proprio nella sua prima edizione nel 2013.

Il palco è quindi una stanza della mente per Amleto, e forse una stanza del tempo per Sinisi, il quale si rapporta da quasi venti anni con le stesse parole, in un incontro tra l’uomo che cambia e il testo che resta. Lo stesso uomo che, alla fine della replica, si gode con occhi grati gli scroscianti applausi del pubblico. 

Gloria Carovana