Breve impressione su “Come va a pezzi il tempo” del Progetto Demoni

I “demoni” di Sansepolcro ti accolgono in una casa fuori dal tempo (uno spazio “non teatrale”, così come lo ha definito Alessandro Mieli, uno dei due attori), in pieno centro storico. Siamo in quattro, abbiamo appuntamento alle Laudi. Da lì una volontaria ci accompagna al portone; è una camminata silenziosa, fra la calura avvolgente del torrido centro storico, semideserto a quell’ora. Prima di lasciarci entrare ci ricorda di non intervenire durante lo spettacolo, di prendere posto dove è ovvio che sia, di lasciarci guidare dagli attori negli eventuali spostamenti. Apre il portone di casa e chiude la porta dietro di sé: siamo dentro.

Davanti a noi una scala e un piccolo androne, la scelta è obbligata, saliamo. È una vecchia casa di paese, col pavimento in marmo e le pareti spesse, fresca, arredata sobriamente, secondo un gusto italiano del secondo dopoguerra. La scala termina in un soggiorno piccolissimo che apre, dietro, anche sulla cucina. Troviamo quattro minute sedie in legno, e senza dirci nulla ci sediamo. Abbiamo il tempo di volgere una rapida occhiata all’ambiente scarno, quando un ballabile dei primi anni ’50 inizia a far risuonare la stanza. Non se ne capisce bene l’origine, forse il piano di sopra, forse la strada, e rimaniamo un minuto circa in attesa, mentre piano piano la musica inizia a dare risalto agli oggetti, a colorarli dello spirito del tempo evocato. Ed ecco una voce femminile: viene dal piano di sopra. Mi sporgo indietro, verso la cucina, c’è una porticina, quasi non si vede, che porta probabilmente al piano di sopra. È la voce di un’amante, che chiama il suo uomo, dolcissima, innamorata. Scende, passa attraverso la cucina, il lavabo in marmo, si avvicina a noi e va oltre. Il suo sguardo è volto alla camera che si apre davanti, oltre il soggiorno. Da lì esce l’uomo che chiamava, si avvicinano, si guardano, si baciano, poi lui va via. A questo punto la donna ci rivolge direttamente lo sguardo e ci avverte che quelli che vedremo sono i suoi ricordi, che quello che stiamo vedendo è già avvenuto in un altro tempo, e stiamo assistendo alla sua manifestazione mediata dal suo punto di vista (ma lei è viva? Chi l’ha chiamata?).

Lo spazio si carica improvvisamente di senso, si fa denso, gli oggetti diventano referenti di due esistenze, noi diventiamo testimoni di una presenza che è anche assenza. Sembra quasi, infatti, che sia lo stesso ambiente a richiamare gli eventi, quasi come fossero un’emanazione del luogo, che nulla ha a che fare con noi, che ne diventiamo i fortunati testimoni. La vicenda consumatasi è quella di una relazione fra una donna e uno scrittore, dai primissimi, felici albori, ai momenti più cupi e al dramma finale dell’abbandono. Ci viene raccontata in una quarantina di minuti dove abbiamo modo di spostarci lungo tutto il piccolo appartamento: la camera da letto, il piccolo scrittoio, la cucina.

Si muove lungo i binari (qui l’unica pecca) di una serie di situazioni che nella loro progressione odorano un po’ di cliché, – la frustrazione di lui, la richiesta di attenzioni di lei, le recriminazioni reciproche -, ma che grazie ad una notevole capacità di introspezione e scrittura del sentimento, grazie alla forza della commistione fra ambiente, attori, storia e voci riescono a fare breccia e turbare lo spettatore. Soprattutto nel momento finale, quando la storia si è consumata, e gli attori ci lasciano soli.

Lo spettacolo sembrerebbe volto al termine, eppure proprio in quel momento siamo investiti da un’intensa “coda emotiva”, preparata durante tutto l’avvenimento. Veniamo lasciati soli ad abitare con tutto il tempo di abitare l’assenza, fra pezzi di carta stracciata, la tavola ancora apparecchiata, vestiti buttati per terra, ripercorrendo gli ambienti dove prima si erano manifestate le due voci-presenze: e così, proprio in rapporto a questa presenza-assenza, si manifesta l’epifania, tremenda, di come va a pezzi il tempo

Carlo Maria Fabrizi

DAL 13 AL 21 LUGLIO 2018
KILOWATT FESTIVAL – SANSEPOLCRO (Arezzo)
L’energia della scena contemporanea
DIVERSI PERCHÉ UMANI